
Visitare i carcerati | Eppure, sono figli nostri
Una delle sette opere di misericordia corporali è visitare i carcerati. In questo lungo articolo, troviamo spunti e domande
Parlare di opere di misericordia, oltre che compierle, è un modo per sentirle più vicine e possibili, per iniziare a guardarle come realtà vive fatte di carne.
Perché ci fanno incontrare con le persone reali, le situazioni concrete, e ci pongono interrogativi che ci spingono a cambiare: noi stessi, gli approcci, il mondo…
Visitare i carcerati è, come sappiamo, un’opera di misericordia.
Vado spesso in carcere a trovare i miei clienti. Tuttavia, devo confessarlo, non ci vado per coniugare e vivere quest’opera di misericordia. Mi reco in carcere esclusivamente per ragioni professionali: per concordare le difese, per parlare dei processi.
È successo, però, che gli ultimi avvenimenti che si sono registrati a Rosolini e che hanno portato all’arresto di alcune persone, tre delle quali sono miei clienti, mi stanno ponendo seri interrogativi e mi stanno consentendo di approfondire meglio il senso di questa opera di misericordia.
È cronaca di quest’ultimo periodo che a Rosolini si siano susseguiti per molto tempo tutta una serie di eventi criminosi che hanno turbato la serenità della nostra comunità e di ciascuno di noi e che hanno fatto della nostra città un luogo niente affatto sicuro.
Eventi che ci hanno spinti a interrogarci sul problema sicurezza, a organizzare incontri per chiedere maggiore presenza delle
forze dell’ordine nel territorio, in un crescendo che è andato di pari passo con un aumento di rabbia, di disaffezione verso le istituzioni, di desiderio di giustizia casalinga, di insofferenza sociale, ma anche di disillusione e di rassegnazione.
Non esagero se dico che si sono registrati sentimenti – forse umanamente comprensibili – di odio e di rifiuto.
Grazie all’eccellente lavoro svolto dalle forze dell’ordine e dalla Procura della Repubblica, qualche settimana fa sono state eseguite delle ordinanze applicative di misure cautelari, che hanno condotto in carcere alcuni dei presunti responsabili.
Va subito detto, ovviamente, che questi arresti non hanno significato la fine del fenomeno malavitoso in città; fenomeno che è di ben più alta portata e vastità. Tuttavia questa operazione di polizia ha avuto certamente un effetto benefico, perché ha contribuito a una sorta di rassicurazione sociale.
Abbiamo potuto apprezzare il lavoro dei nostri carabinieri, rinsaldando il legame che lega la città alla benemerita. In effetti, quando lievitava una critica generalizzata e tutti ci chiedevamo cosa si stesse facendo, l’aver saputo dell’arresto di alcuni dei responsabili, peraltro noti ai più anche per i tanti video che giravano nei social, e il vedere la presenza di pattuglie di polizia e carabinieri hanno tranquillizzato in qualche modo l’opinione pubblica, anche se gli episodi criminali non sono cessati del tutto.
L’aver assicurato alla giustizia quelle persone è stato accolto con soddisfazione, facendo dire ai più: era ora!
Tuttavia non posso non dire che questi fatti ci pongono davanti problematiche che professionalmente e lasciatemelo dire cristianamente, bisogna in qualche modo affrontare, trattare e valutare nel giusto modo.
Questo lo scrivo in risposta ai tanti amici e conoscenti che, quando ci ritroviamo a parlare del problema, concludono sempre dicendo: “mi raccomando lasciali stare dove sono e speriamo che buttino la chiave”.
C’è un sentimento diffuso, mi pare di cogliere, che vorrebbe che gli arrestati dentro sono e dentro è bene che rimangano.
Certamente è un sentimento comprensibile. Eppure queste persone sono figlie della nostra città!
Questo sentimento non può essere il sentimento dei rosolinesi.
Dico di più: non può essere il sentimento dell’uomo. Perché se Giustizia vuole che chi sbaglia paghi, la stessa Giustizia vuole che chi sbaglia paghi il giusto e che giustizia non diventi vendetta.
Le persone che hanno commesso dei reati e sono riconosciute colpevoli è giusto che subiscano la punizione prevista dalla legge.
Tuttavia, non possiamo fermarci qua. Non possiamo ritenere che la giusta pena sia soltanto quella comminata dal giudice.
La pena è giusta quando essa, come prevede la nostra Carta Costituzionale all’art. 27, non è contraria “al senso d’umanità” e deve “tendere alla rieducazione del condannato” ai fini del suo reinserimento sociale.
Per il cristiano poi, la pena è giusta se è coniugata con il Perdono.
Giustizia e Perdono sono le facce di una stessa medaglia: la Giustizia è giusta pena e mai vendetta, il Perdono è il farsi carico di chi ha sbagliato per riaccoglierlo nella comunità sociale.
Quindi, partendo da questa considerazione, sto rivalutando il senso vero del “visitare i carcerati”.
Visitare i carcerati è un’opera di misericordia che certamente non si limita alla mera visita in carcere (peraltro non consentita a tutti). Visitare i carcerati è un’opera di misericordia che ci pone profondi interrogativi.
Siamo sicuri che l’errore di queste persone sia solamente un loro errore o piuttosto non ci sia una responsabilità sociale che dovremmo ricercare, capire e a cui dovremmo porre riparo?
Cosa possiamo e dobbiamo fare, io per primo e tutti assieme, perché questo non abbia a succedere?
Stiamo attenti poi alla generalizzazione.
L’invito evangelico di visitare i carcerati non è un’azione impersonale da effettuare in favore del carcerato in quanto tale. È, piuttosto, una visita personale: siamo chiamati a visitare quella specifica persona, quel carcerato, con la sua storia e il suo vissuto.
Ed ecco un’altra domanda: cosa posso io fare per questa persona, per questo fratello?
È un problema sociale e personale allo stesso tempo, che per i cristiani diventa una necessità imperiosa, per quanto scomoda possa essere o apparire.
Visitare il carcerato è visitare Giovanna, Giuseppe, Filippo (i nomi sono dati a caso) con la loro umanità.
Giovanna, Giuseppe e Filippo chiedono che la mia visita diventi un cammino da percorrere insieme:
mentre costoro pagano la loro giusta pena,
io devo agire per dare loro la possibilità di ritornare bene nella nostra società.
È veramente un momento particolare quello che mi si sta ponendo di fronte, perché sto registrando situazioni che in passato non ho colto nella giusta prospettiva e che ora mi stanno facendo molto riflettere.
Quando, prima di essere arrestati, richiamavo e sollecitavo i miei clienti a comportarsi bene, mi accorgevo che le mie erano parole vuote, buttate al vento, non comprese. Parole che rimbalzavano nella loro mente come in un muro di gomma.
Parlavo con persone che in quel momento non avevano la capacità di interagire o relazionarsi; persone che per la maledetta droga avevano perso il senno, la voglia di essere, la credibilità e la personalità.
Devo dire però – è questo è un dato sintomatico – che il rapporto con queste persone che mi ha insegnato qualcosa di importante.
Durante un dialogo avuto con loro qualche tempo fa (con una in particolare) – un dialogo non tra avvocato e cliente, ma tra due persone che si conoscono da tempo – mi fu detto: “non vedo l’ora che mi arrestino perché forse è l’unico modo che ho per salvarmi”.
È il frutto della nostra società. Sono figli nostri e questo mi fa rabbrividire e vergognare.
Mi fa rabbrividire il pensiero che nella nostra comunità ci sono persone che delinquono perché non hanno la capacità di fare altro e che sperano, come una liberazione, di essere arrestati per essere salvati.
Torno a domandarmi: perché non siamo riusciti a salvarli prima che commettessero reati? Dove sta la causa?
Qui si aprono due strade.
Innanzi tutto, occorre avere una seria attenzione nei confronti di chi si trova in situazioni di vita particolarmente difficili, di chi vive in tuguri, di chi non ha il lavoro, di chi non riesce a uscir fuori dalla droga, di chi vive in ambienti subculturali, di chi non ha studiato, di chi non ha affetti e vive una solitudine esistenziale e di emarginazione.
Rispetto a costoro, a quelli di loro che non sono in carcere, cosa facciamo e cosa dobbiamo fare? È una domanda che fa vacillare il mio benpensare.
Mi colpisce anche come membro di un’associazione che ha la Misericordia nel suo nome.
Mi colpisce come cristiano. Mi colpisce come Chiesa.
Cosa dobbiamo fare? A questa domanda una risposta bisogna darla.
Non mi illudo certamente di avere la soluzione al problema: la criminalità è parte della nostra società, fin dai tempi di Caino e Abele. Tuttavia questo non deve diventare un alibi.
So perfettamente che è difficile, molto difficile e forse impossibile arginare la delinquenza. Ma anche questo non può diventare un alibi. So perfettamente che non diventeremo da domani tutti più buoni solo perché lo vogliamo o lo desideriamo.
È urgente però confrontarci perché, oltre a pretendere il rispetto massimo della legalità – principio imprescindibile e irrinunciabile della nostra società – e a chiedere alle Istituzioni e ai presidi di aiuto sociale presenza e interventi mirati e solleciti, siamo chiamati tutti ad alzarci dalle poltrone e uscire fuori, verso quelle che Papa Francesco chiama periferie esistenziali.
Non possiamo non considerare che spesso questi nostri figli sono essi stessi delle povere vittime. Il tossicodipendente che delinque per acquistare la sua dose è sì una persona che ha infranto la legge, ma è esso stesso vittima della sua azione.
Ecco la prima strada che siamo chiamati a percorrere:
il mio visitare i carcerati avrà senso quando nella quotidianità farò in modo di non dover più andare a visitare i carcerati, quando sarò un buon cittadino e un cristiano che non si gira dall’altra parte.
Certo, non riusciremo a risolvere tutto, ma – e su questo ne sono convinto – non è necessario che tutto si risolva. Se riusciamo a salvare anche uno solo di questi nostri figli, abbiamo raggiunto l’obiettivo e tutti avremo da trarne beneficio.
Non insegna forse la nostra fede che se uno ha cento pecore e ne perde una, lascia “le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovata, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta”? (Cfr. Luca 15,3-7).
L’altra strada è quella da percorrere insieme a chi sta pagando la sua pena. Guai a pensare che il carcere sia la soluzione. Il carcere è certamente fondamentale ed importante per garantire la sicurezza sociale e instradare il reo in un percorso di reinserimento.
Tuttavia, da solo non basta. Anzi, può essere addirittura luogo criminogeno. È necessario che, oltre alle vie giuridiche, ci siano anche vie sociali.
L’opera di misericordia del visitare i carcerati avrà vera attuazione
se io, noi, la comunità cittadina creiamo un humus sociale accogliente.
In particolare, sono da evitare due atteggiamenti molto comuni: il desiderio di vendetta e il perdonismo.
Lo dicevo prima: Giustizia non vuole vendetta. Occorre piuttosto prendere atto che l’errore dei figli è sintomo di un male sociale che bisogna curare. Se una parte del mio corpo sta male, la curo. Per far stare bene tutto il corpo non posso non curare la parte di esso che sta male.
Ecco allora che per costruire una società in salute, è necessario prendersi cura anche di chi adesso si trova in carcere.
Non è dicendo “poverini” o facendo l’elemosina che si coniuga il vero perdono.
Perdonare è un atto del cuore; è, come dice Papa Francesco, “lo stile di vita del cristiano”. Non è cancellare l’azione delittuosa come se non fosse mai accaduta.
E’ l’impegno personale di non lasciare da sola la persona che ha sbagliato.
Sono testimone di un iniziale cambiamento in alcuni di questi nostri figli.
Passati i primi giorni difficilissimi dovuti all’astinenza, li ho trovati più in carne, più sereni (strano a dirsi per un recluso).
Si stanno ritrovando come persone. Allo stesso tempo sono dispiaciuti per quello che hanno fatto.
Una di loro mi ha chiesto espressamente, dopo un pianto sincero e liberatorio, di dire a suo papà di perdonarla per il male che gli ha fatto. Era la piccolina della famiglia a cui tutti volevano bene.
Dannata droga, che ha rovinato tutti i suoi sogni. Chiede scusa a tutti coloro a cui ha fatto del male.
Non sono scuse utilitaristiche. “Sono in carcere e qui voglio restare per tornare ad essere la ragazza che ero” mi ha detto.
Di fronte a questo, non possiamo stare con le braccia conserte. Non possiamo delegare al solo carcere il loro recupero. Preoccupiamoci di loro. Prendiamocene cura.
Chiediamoci, per esempio, se hanno di che mangiare, di che vestire. Chiediamoci se le famiglie sono vicine e hanno le possibilità, economiche e culturali, per aiutarli.
Non sono necessari grandi imprese. Sono sufficienti anche piccoli gesti di vicinanza; gesti che siano frutto di una vera condivisione.
L’opera di misericordia, tutte le opere di misericordia, non servono solo a chi è il destinatario dell’opera buona. No, no. Le opere di misericordia alimentano la reciprocità.
Nel fare il bene, ricevo bene. Aiutare il fratello che ha sbagliato aiuta noi stessi a non sbagliare.
Questa esperienza, che mi sta professionalmente segnando, mi sta facendo vivere il senso profondo di “visitare i carcerati”.