Vangelo di Domenica 4 Settembre: Luca 14, 25-33
XXIII Domenica C
25Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: 26“Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo. 28Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: 30Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace. 33Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”.
Lc 14, 25-33
Cari Consorelle e Confratelli delle Misericordie, sono Carlo Miglietta, medico, biblista, laico, marito, papà e nonno (www.buonabibbiaatutti.it). Anche oggi condivido con voi un breve pensiero di meditazione sul Vangelo, con particolare riferimento al tema della misericordia.
Al di sopra di tutto
Non siamo più nella casa del fariseo durante un pranzo, ma sulla strada e Gesù non parla più a scribi e farisei, ma alla folla “che andava con lui” (14,25).
Come appare dalle parole di apertura (14,26) e di chiusura (14,33), il tema è la “condizione necessaria per essere discepolo”.
Non è certamente un tema nuovo, ma è trattato con una forza e una radicalità che è difficile trovare altrove. La radicalità è un tratto caratteristico di Luca, ma un secondo tratto, tipicamente lucano, è lo sforzo di calare il messaggio di Gesù nel quotidiano.
Gesù invita il discepolo a spezzare tutti i legami familiari, e a rompere perfino il legame con se stessi (14,26). L’inquietante invito di Gesù era senza dubbio, in origine, rivolto ai discepoli missionari itineranti, i quali, concretamente, dovevano abbandonare tutto per annunciare dovunque l’arrivo del regno. Matteo si mantiene in questa linea, collocando il detto nel discorso missionario, ma la comunità ha poi inteso questo detto come rivolto a tutti: è una condizione di ogni discepolo, non solo del missionario itinerante. È in questa seconda prospettiva che si pone Luca: l’invito è rivolto alle folle (14,25), cioè a tutti. Luca è più minuzioso nell’elencare i legami da rompere: non solo, come Matteo, i genitori e i figli, ma anche i fratelli, la moglie e perfino se stessi.
Il discorso di Luca non è solo per i religiosi, ma per tutti: “La distinzione tra il cristiano e il religioso è ambigua, perché non è suffragata dal Vangelo, che chiede a tutti di essere perfetti seguaci di Cristo” (O. Da Spinetoli).
Afferma Papa Francesco: “Il discepolo di Gesù rinuncia a tutti i beni perché ha trovato in Lui il Bene più grande, nel quale ogni altro bene riceve il suo pieno valore e significato: i legami familiari, le altre relazioni, il lavoro, i beni culturali ed economici e così via… La fede non è una cosa decorativa, ornamentale, non è decorare la vita con un po’ di religione, come si fa con la panna che decora la torta… Non possiamo essere cristiani part-time. Se Cristo è al centro della nostra vita, Lui è presente in tutto ciò che facciamo”.
Prendere la croce
“«Prendere la croce» (14,27) equivaleva a essere pronti a morire (cfr 23,26). Dopo l’esperienza di Gesù la «croce» era diventata il simbolo delle sofferenze sopportate per il Regno di Dio” (O. Da Spinetoli).
“Prendere la croce” è quindi sopportare ogni prova per il Vangelo e la diffusione del Regno. Scrive Paolo: “Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi” (1 Cor 4,11-13).
“Prendere la croce” è collegato al “venire dietro di me” (14,27). Anche se il supplizio della croce era ben diffuso quando vengono scritti i Vangeli, i cristiani collegano il “prendere la propria croce” alla Croce di Gesù, segno supremo di rinuncia se stessi, di servizio, di dono: “A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme” (1 Pt 2,21). Prendendo a modello il Maestro, il discepolo deve rinunciare a ogni egoismo, a ogni affermazione di sé, e a fare della sua vita, come Gesù, un’oblazione d’amore per i fratelli.
“Prendere la croce” è anche sopportare con pace interiore le sofferenze di ogni giorno, le malattie, le tribolazioni, le paure, le incomprensioni, i tradimenti; infatti “chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?” (Rm 8,35). Paolo addirittura afferma: “Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12,10). È nella mia povertà, è nei miei limiti che esplode la potenza di Dio e la sua quotidiana capacità di consolarci e di stupirci.
Pensiamoci bene
Anche le parabole che seguono (della torre e del re: 14,20-31) devono essere lette nel contesto delle condizioni per seguire Gesù, cioè nel contesto della rinuncia: la sequela non è fatta per i superficiali, per gli irriflessivi e per i presuntuosi. “Scegliere Cristo è come intraprendere una guerra senza quartiere a tutte le potenze del male… Andarvi impreparati si va incontro a conseguenze ancora più gravi” (O. Da Spinetoli).
Spesso nelle nostre Chiese e nelle nostre comunità si ha paura di annunciare il Vangelo di Gesù sine glossa, così com’è, e si presenta un annuncio edulcorato, mutilato, soft: si ha sempre timore di chiedere troppo, per cui la catechesi dei Sacramenti dell’iniziazione cristiana o del matrimonio si riduce a pochi incontri, in cui le richieste più esigenti e radicali di Gesù non vengono mai nominate; si trattano sempre meno temi come la morte, la povertà, la condivisione dei beni, la castità, l’eunuchìa per il Regno, cioè il non risposarsi, se abbandonati dal coniuge, per essere segno vivente della fedeltà imperitura di Dio… Si ha paura che la gente scappi, che quei pochi che ancora vengono in chiesa si allontanino. Grandi sorrisi, grande cordialità, ma tanto timore di affidarci alla forza esigente della Parola.
La conclusione (“Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo”: 14,33) è probabilmente redazionale, costruita da Luca come epilogo delle due parabole e dell’intera pericope. Solo nel distacco da se stessi e dai beni è possibile essere discepoli, è possibile il dono totale (finire la torre e vincere l’esercito nemico).
“Mettere Gesù nel mezzo significa ridefinire ogni relazione, dandole spessore e valore, ma anche limite e opportunità. Nessuna moglie, nessun figlio, nessuna soddisfazione, dice Gesù, possono colmare l’infinito desiderio d’amore che abita il nostro cuore e che Dio solo colma…!
Così, Signore, ci sfidi: puoi essere più della più grande gioia che possiamo sperimentare: quella dell’amore per un figlio, della passione per un’amante. Ci fidiamo di te, Signore, e – fatti bene i nostri conti – ti diamo fiducia, Dio che solo puoi saziare la nostra sete di infinito!” (P. Curtaz).
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.