Vangelo di Domenica 29 ottobre: Matteo 22, 34-40
XXX Domenica A
34 Allora i farisei, avendo udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35 e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: 36 “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. 37 Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. 38 Questo è il grande e primo comandamento. 39 Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. 40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”.
Mt 22, 34-40
Cari Consorelle e Confratelli delle Misericordie, sono Carlo Miglietta, medico, biblista, laico, marito, papà e nonno (www.buonabibbiaatutti.it). Anche oggi condivido con voi un breve pensiero di meditazione sul Vangelo, con particolare riferimento al tema della misericordia.
“Continuano le controversie tra Gesù e i suoi oppositori, che a turno tentano di coglierlo in contraddizione con la fede di Israele, con l’insegnamento della tradizione, deposito da essi custodito gelosamente. I sadducei, cioè i sacerdoti (cfr Mt 22,23); i farisei (cfr Mt 22,15), un movimento laicale estremamente legato alla Torah, alla Legge; gli erodiani, partigiani di Erode (Mt 22,16); gli interpreti delle Scritture: tutti vanno da Gesù, mentre egli si trova nel tempio, per porgli domande, per «fargli l’esame» e coglierlo in fallo nelle sue parole… «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». La domanda è pertinente, perché nel giudaismo rabbinico la Legge aveva assunto un posto centrale all’interno della rivelazione scritta: e così i primi cinque libri biblici erano i più studiati e meditati, con un primato su tutti gli altri, quelli dei profeti e dei sapienti. In questo studio della Torah i rabbini avevano individuato, oltre alle dieci parole date da Dio a Mosè (cfr Es 20,2-17; Dt 5,6-22), 613 precetti, come spiega un testo della tradizione ebraica: Rabbi Simlaj disse:
«Sul monte Sinai a Mosè sono stati enunciati 613 comandamenti: 365 negativi, corrispondenti al numero dei giorni dell’anno solare, e 248 positivi, corrispondenti al numero degli organi del corpo umano … Poi venne David, che ridusse questi comandamenti a 11, come sta scritto [nel Sal 15] … Poi venne Isaia che li ridusse a 6, come sta scritto [in Is 33,15-16]… Poi venne Michea che li ridusse a 3, come sta scritto: “Che cosa ti chiede il Signore, se di non praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio?” (Mi 6,8) … Poi venne ancora Isaia e li ridusse a 2, come sta scritto: “Così dice il Signore: «Osservate il diritto e praticate la giustizia»” (Is 56,1) … Infine venne Abacuc e ridusse i comandamenti a uno solo, come sta scritto: “Il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2,4; cfr Rm 1,17; Gal 3,11)” (Talmud babilonese, Makkot 24a)” (E. Bianchi).
L’ebraismo farisaico, nella sua corrente hillelita, ammetteva però sia la facoltà di una gerarchia di prescrizioni, distinguendoli in “leggere” e in “gravi” (Mt 5,19; 23,23), sia la possibilità di riassumere tutta la Legge in un unico “grande precetto” (“kelal gadol”). A Gesù viene posto dai farisei, nel Vangelo odierno (Mt 22,34-40), il quesito su quale fosse, secondo lui, il “kelal gadol”. Gesù risponde citando il comando dello “Shema’”, l’“Ascolta, Israele” di Dt 6,5, che imponeva l’amore verso Dio, soltanto sostituendo “con tutta la forza” del suo testo con la frase “con tutta la mente” (“dianoia”). Fin qui, posizione inattaccabile dai farisei. Ma Gesù va subito oltre, affermando che c’è “un secondo comandamento simile al primo” (22,39), quello dell’amare il prossimo come se stessi. A questi due precetti sono “appesi” (22,40: “krèmatai” sottintende l’ebraico “telujim”) non solo la Torah, ma anche tutto il profetismo, così come due cardini sostengono una porta. “L’associazione dei due precetti dell’amore… è un dato evangelico senza paralleli nell’ebraismo, salvo che nei Testamenti dei dodici Patriarchi, un’opera sospetta di interpolazioni cristiane” (A. Mello).
Afferma Papa Francesco: “Questa risposta di Gesù non è scontata, perché, tra i molteplici precetti della legge ebraica, i più importanti erano i dieci Comandamenti, comunicati direttamente da Dio a Mosè, come condizioni del patto di alleanza con il popolo. Ma Gesù vuole far capire che senza l’amore per Dio e per il prossimo non c’è vera fedeltà a questa alleanza con il Signore. Tu puoi fare tante cose buone, compiere tanti precetti, tante cose buone, ma se tu non hai amore, questo non serve”.
Il richiamo del Vangelo è estremamente importante nell’attuale situazione religiosa, dove spesso la fede è vissuta in maniera privatistica e intimistica, ridotta spesso a culto e liturgia, e non diventa un’ortoprassi che trasforma le nostre relazioni sociali, economiche, politiche. Eppure Dio vuole concretamente essere amato negli uomini:
“20 Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. 21 Non maltratterai la vedova o l’orfano. 22 Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, 23 la mia collera si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani. 24 Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. 25 Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, 26 perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, perché io sono pietoso” (Es 20,22-26).
Dio vuole essere amato nel “forestiero”, diremmo oggi nell’“extracomunitario”, che non deve essere vessato ma accolto, nella “vedova” e nell’“orfano”, simboli di tutti gli oppressi da sistemi politici che non tutelano i più deboli e gli ultimi; nell’attenzione che la nostra economia non prosperi sulle spalle dei bisognosi ma che sia con loro compartecipazione solidale (“all’indigente… non dovete imporgli alcun interesse”!), nella completa remissione del debito dei poveri (“se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole”), come tante volte inutilmente richiesto dagli ultimi Papi. Scrive l’apostolo Giovanni: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20).
Chiediamoci se abbiamo finalmente capito che l’Eucarestia, a cui almeno settimanalmente partecipiamo, è la celebrazione dell’esistenza del Figlio come offerta totale per amore, che ci chiama con forza a diventare anche noi amore agapico per i fratelli, servizio, oblazione, comunione, compartecipazione. Diceva Giovanni Crisostomo: “Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo… Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo», è il medesimo che ha detto: «Voi mi avete visto affamato e non mi avete nutrito», e «Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me»”.
Affermava il cardinal Poletto: “Se l’Eucarestia fosse compresa e vissuta nel suo valore fondamentale per la vita cristiana…, anche la grande sfida della pace e della giustizia sociale…, se accolta, porterebbe l’umanità a diventare vera famiglia dei figli di Dio. Questa sfida può essere vinta proprio con quel «surplus» di coraggio nell’amore verso gli altri che i credenti ricevono dalla partecipazione al mistero eucaristico, perché esso porta ciascuno di noi dentro la dinamica della Pasqua del Signore, il quale ci ha dimostrato, morendo sulla croce, che «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13)”.
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.