Vangelo di Domenica 28 aprile: Giovanni 15, 1-8
V Domenica di Pasqua B
“1 Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3 Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4 Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6 Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”.
Gv 15, 1-8
Cari Consorelle e Confratelli delle Misericordie, sono Carlo Miglietta, medico, biblista, laico, marito, papà e nonno (www.buonabibbiaatutti.it). Anche oggi condivido con voi un breve pensiero di meditazione sul Vangelo, con particolare riferimento al tema della misericordia.
Il Vangelo odierno (Gv 15,1-8) è un mashal, genere letterario ebraico comprendente la parabole e l’allegoria, che abbiamo già riscontrato nelle immagini della porta delle pecore e del pastore (Gv 10,1-18),
Gesù si presenta come “la vera vite”. Per questa immagine abbiamo vari riferimenti:
a) il riferimento all’Antico Testamento:
– simbolo collettivo: talora indica Israele in quanto popolo di Dio, sottolineando la sua appartenenza al Signore (Is 5,1-7; 27,6-2; Os 10,1; Ger 2,21; Ez 19,10-14). Tale simbolismo sarà spesso ripreso dai Vangeli sinottici (Mc 12,1.11; Mt 20,1-16; 21,28-32…);
– simbolo individuale: spesso designa il Messia (Sl 80,15-16; Sir 24,17-21), la vite escatologica che sazierà ogni fame ed ogni sete: in Giovanni, il riferimento è certamente all’“albero della vita” della Genesi (Gen 1,9), i cui frutti fanno “diventare come Dio” (Gen 3,5).
b) il riferimento eucaristico: in Giovanni manca il racconto dell’istituzione dell’Eucarestia, ma “Io sono il pane vivo di Gv 6,51 e “Io sono la vera vite “ di Gv 15,1 formano un dittico simile a “Questo è il mio corpo” e “Questo è il mio sangue” dei Vangeli sinottici. D’altra parte il calice è “il frutto della vite” in Mc 14,25 e Mt 26,29.
c) l’unione a Gesù: “Gesù è la vite escatologica, perché è il Messia, il resto di Israele, la Parola-Sapienza che prende posto della Legge mosaica e anima il nuovo popolo di Dio dall’interno” (Panimolle). Gesù è la “vera” vite, in opposizione alla sinagoga e al giudaismo sterili, ma anche a tutte le ideologie (lo Stato, la Religione, il Potere, l’economia, il materialismo, il consumismo, l’edonismo…) che promettono vita all’uomo. Solo uniti a Gesù si ha la vita: lontani da lui c’è solo morte. La vita dei credenti dipende dall’intensità dell’unione con il Cristo: ogni altra strada non dà la “vera” esistenza all’uomo (Gv 15,1).
Solo in Gesù “portiamo frutto” (Gv 15,5): tale frase fu usata contro Pelagio, che affermava che l’uomo, con la forza naturale della sua volontà e senza l’aiuto divino, poteva compiere il bene: Adamo aveva solo dato cattivo esempio: e a Pelagio rispondono le definizioni del II Concilio di Orange (529). Al contrario di Pelagio, la riforma protestante affermò che l’uomo era intrinsecamente male, e la sua libertà annullata dal peccato delle origini: a questa tesi, basandosi su questo versetto, si contrappongono le proclamazioni del Concilio di Trento (1546), che sostengono il valore della grazia e la possibilità per l’uomo, unito a Cristo, di compiere opere buone.
Occorre “rimanere in lui” (“menein ein” ricorre dieci volte nei vv. 4-10!). Ma la proposta della fede ancora una volta è quanto mai concreta: non ci viene chiesta un’adesione formale al Cristo; non ci è domandato un assenso intellettuale o una professione di ortodossia; nemmeno una dimensione cultuale o liturgica. Ci viene chiesta un’ortoprassi, di “portare frutto” (vv. 2.5.8), per “glorificare il Padre” (v. 8) e perché la preghiera sia efficace (v. 7). Dobbiamo trasformare la nostra vita sul modello di Cristo, portando al mondo la sua stessa linfa vitale, che è linfa agapica (1 Gv 4,8), cioè un amore che non attende contraccambio, che è pura immolazione e servizio. Siamo “nella verità… se non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti…, se osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quel che è gradito a lui… Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui… E questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri” (1 Gv 3,18-24). Credere e amare: fede e carità definiscono l’essere cristiano: “l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere” (Rm 3,28), ma “la fede, se non ha le opere, è morta” (Gc 2,17).
La Fede non è una situazione statica, realizzata una volta per tutte dal sacramento del battesimo, bensì una realtà dinamica: bisogna lasciarsi “tagliare e “potare” dal Padre (v. 2: “airein” e “kathairein”, due verbi dal suono simile che richiamano “katharos”, “mondo”, “puro” del v. 3). E’ la Parola del Signore (v. 3), “più tagliente di una spada a doppio taglio” (Eb 13,4) che ci monda continuamente, che ci purifica, che ci mette continuamente in crisi per farci migliori, più fedeli, più poveri, più capaci d’amore e di servizio, più veri, più evangelici, più cristiani. Al credente non è risparmiato il dolore, ma nella sofferenza nasce l’uomo nuovo (Gv 16,21). In questo brano è adombrato non solo il faticoso processo di crescita e di maturazione del credente nell’unione a Gesù, ma anche il mistero del male che talora colpisce il fedele, e che nell’ottica di Dio può avere un valore pedagogico e purificatorio.
Si noti come solo il Padre sia il vignaiuolo: l’unico padrone della vigna è lui, e nessuno può arrogarsi il potere di eliminare o di potare i tralci: ciò deve portarci sempre ad un atteggiamento di astensione dal giudizio e di grande misericordia verso i fratelli.
“Il «comandamento» di credere e di amare non è un’imposizione astratta…, bensì è situato nell’essere e nell’agire di Dio che diviene sperimentabile in Cristo, e concreto negli uomini da lui «presi»” (E. Jerg). Chi ha veramente incontrato il Signore, chi lo ha scoperto come unico senso del vivere e del morire, chi “rimane in lui”, sa mettere in gioco tutta la propria vita per il Vangelo e per i fratelli: anzi, “chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita… la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,25).
Sembra un discorso duro, quasi masochista: invece è la ricetta della felicità. Il Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,10), non può che proporci la nostra gioia più piena. E il Vangelo odierno si conclude ricordandoci che solo in Dio abbiamo vita, mentre lontani da lui (il greco “choris” di Gv 15,5 significa sia “senza” che “lontano da”) ci avviamo verso la negatività e la morte, siamo come “il tralcio che viene gettato via e si secca”, utile solo ad essere “bruciato” (Gv 15,6).
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.