Vangelo di Domenica 27 Febbraio: Luca 6, 39-45
VIII Domenica C
39Disse loro anche una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca? 40Il discepolo non è da più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro. 41Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? 42Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. 43Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. 44Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo. 45L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore”.
Lc 6, 39-45
Cari Consorelle e Confratelli delle Misericordie, sono Carlo Miglietta, medico, biblista, laico, marito, papà e nonno (www.buonabibbiaatutti.it). Anche oggi condivido con voi un breve pensiero di meditazione sul Vangelo, con particolare riferimento al tema della misericordia.
Il brano di Vangelo di Lc 6,39-45 ci riporta alcuni passaggi del discorso che Gesù pronuncia sulla pianura dopo aver trascorso la notte in preghiera (Lc 6,12) e dopo aver chiamato i dodici ad essere suoi apostoli (Lc 6,13-14). Gran parte delle frasi riunite in questo discorso sono state pronunciate in altre occasioni, però Luca, imitando Matteo, le riunisce qui in questo Discorso della Pianura.
Il testo si articola in alcune similitudini. La prima ci invita a non essere “ciechi che guidano altri ciechi” (v. 39). Chi sono questi ciechi? Forse i farisei che pretendono di essere maestri dei loro connazionali nonostante la loro ottusità spirituale e mentale. Oppure i pastori delle comunità cristiane che guidano le Chiese e sono colmi di peccati. Ma in realtà questo detto è rivolto a tutti i cristiani che emettono sentenze, che giudicano arbitrariamente gli uomini o peggio ancora i loro fratelli. La cecità fondamentale è non ritenersi bisognosi della misericordia del Padre: dice Giovanni: “Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane” (Gv 9,41). I ciechi sono quindi coloro che “presumono di esser giusti e disprezzano gli altri” (Lc 18,9). Il vero discepolo è invece colui che sa vedere il proprio limite, il proprio peccato, e con umiltà ringrazia il Signore per il suo perdono e la sua salvezza. Il discepolo che non ha sperimentato la misericordia di Dio verso di lui agisce senza misericordia e conduce alla perdizione sé e quanti entrano nel raggio di azione della sua cattiveria.
Il secondo detto parabolico ci ricorda che non si può essere guide cieche, ma neanche super maestri (v. 40). L’unico Maestro è Gesù, che ha detto: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11,29); “Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12,47). E se Gesù è venuto a predicare la misericordia e la salvezza per tutti, così anche i suoi discepoli dovranno solo sempre annunciare la Gioiosa Notizia della tenerezza di Dio per tutti, in ogni circostanza.
La terza similitudine (vv. 41-42) è l’esortazione all’astensione dal giudizio contro gli altri. Gesù vuole stroncare qualsiasi velleità di porsi al di sopra dei fratelli, minando l’armonia, la coesione, la pace comunitaria. L’evangelista dà ai cristiani che così si comportano l’appellativo di “ipocriti”, che Gesù rivolge normalmente agli scribi e ai farisei: il termine designa colui che recita in teatro una parte che non corrisponde alla sua condizione. Chi vuole ergersi a giudice degli altri deve cominciare a convertire se stesso. Il mio occhio deve sempre essere rivolto ai 10.000 talenti condonati a me, e non ai 100 denari che l’altro mi deve (Mt 18,23-35). Al discepolo è chiesto di estromettere la propria trave che lo rende cieco, senza mai credersi giusto e non bisognoso di misericordia. E l’altro deve essere da me graziato come io sono stato graziato: il mio occhio verso l’altro deve essere lo stesso occhio di benevolenza che Dio ha verso di me. Se guardo il mio debito non sono più cieco, ma vedo la misericordia usata verso di me; ma, se guardo il male dell’altro, giudico, mentre Gesù ha detto: “Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati” (Mt 7,1-2). Conviene allora essere davvero sempre sovrabbondanti nella misericordia verso i fratelli!
Nella quarta similitudine (vv. 43-44). Luca continua in questa requisitoria contro l’egoismo e la supponenza di alcuni, che si permettono in comunità di alimentare divisioni e incomprensioni. Il discorso è illustrato da un esempio attinto dal mondo agricolo: gli alberi buoni danno soltanto frutti buoni. Il cristiano, ripieno della carità di Dio, non deve produrre che frutti di bontà e di misericordia.
La conclusione di questa pericope è che dal nostro cuore non deve uscire che “il bene” (v. 45). Per gli ebrei il cuore non è l’organo del sentimento, ma l’organo della volontà: il credente è chiamato a volere solo il bene, quindi a “voler bene”, ad amare sempre e tutti. Il testo ha una portata fondamentale per l’ortoprassi: non conta l’esteriorità, l’etichettatura, ma ciò che si è o si ha dentro. L’essere cristiani non si valuta dalle cerimonie o dal culto, ma dalla bontà d’animo, dalla capacità di amare, che è l’unica cosa che conta.
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.