Vangelo di Domenica 27 agosto: Matteo 16, 13-20
XXI Domenica A
13Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. 14Risposero: “Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. 15Disse loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. 16Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. 17E Gesù gli disse: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 18E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 19A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. 20Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo”.
Mt 16, 13-20
Cari Consorelle e Confratelli delle Misericordie, sono Carlo Miglietta, medico, biblista, laico, marito, papà e nonno (www.buonabibbiaatutti.it). Anche oggi condivido con voi un breve pensiero di meditazione sul Vangelo, con particolare riferimento al tema della misericordia.
Il Vangelo che la liturgia odierna ci propone è lo stesso che abbiamo meditato nella Festa dei Santi Pietro e Paolo. A quel commento vi rimando per un’esegesi più fedele del testo.
Oggi voglio soffermarmi su un problema non certo secondario che scaturisce da questo brano.
IL PRIMATO DI PIETRO
L’antichità di questo brano non è stata quasi mai messa in discussione. Anche Lutero e gli altri riformatori lo ritenevano un testo arcaico, anche se negavano l’interpretazione cattolica secondo cui il brano possa riferirsi non solo alla persona di Pietro, ma anche ai suoi successori. Secondo Lutero, questi versetti sono rivolti a tutta la Chiesa.
Si è però talora ipotizzato che questo testo sia da ascriversi non al tempo di Gesù, ma a quello della prima Chiesa, che avrebbe attribuito a Pietro il ruolo di leader. Pietro sarebbe stato il primo a riconoscere Gesù come Signore dopo la sua resurrezione, e pertanto gli altri apostoli, e non Gesù stesso, gli avrebbero riconosciuto un primato. “Studi più recenti, proprio in ambito protestante, hanno quindi abbandonato la teoria della comunità creatrice del primato di Pietro e hanno, invece, ammesso non solo l’autenticità del testo del primato così come si trova in Mt 16, ma anche il fatto importantissimo che le parole pronunciate da Gesù appartengono a un contesto anteriore alla Pasqua per il loro carattere fortemente semitico” (S. T. Stancati). “Si tratta molto probabilmente di una tradizione prematteana che Matteo ha inserito nel proprio testo” (D. J. Harrington). Il brano è quindi molto antico, e probabilmente riferisce fedelmente il dialogo tra Gesù e Pietro.
IL PRIMATO DEL VESCOVO DI ROMA
Ben presto la Chiesa di Roma dove, secondo la tradizione insegnarono e furono martirizzati sia Pietro che Paolo, divenne il riferimento per tutte le altre Chiese. Già nel 95 Clemente, vescovo di Roma, manda una lunga lettera ai Corinti per risolvere loro controversie, illustrando la dottrina degli Apostoli: “Gli Apostoli ci annunziarono il Vangelo inviati dal Signore Gesù Cristo, Gesù Cristo fu mandato da Dio. Cristo viene dunque da Dio, gli Apostoli da Cristo: entrambi procedono ordinatamente dalla volontà di Dio… I nostri Apostoli vennero a conoscenza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo che sarebbero sorte contese intorno alla funzione episcopale. Perciò, prevedendo perfettamente l’avvenire stabilirono gli eletti e diedero quindi loro l’ordine, affinché alla loro morte altri uomini provati assumessero il loro servizio”. Ignazio di Antiochia, all’inizio del II secolo, definisce la Chiesa di Roma come quella “che presiede alla carità” (“prochathemène tès agàpes”): non significa solo “una precedenza nel sentimento d’amore e nell’azione caritativa. Ma messo in relazione con le parole che immediatamente precedono: «che anche presiede nel territorio romano» («ètis kaì prokàthenai èn tòpo chorìou Romàion») fa pensare proprio ad una vera posizione di preminenza nella fede e nell’amore” (K. Bihlmeyer, H. Tuechle). Ireneo di Lione afferma nel 180-190 che conviene che ogni Chiesa abbia la stessa fede di quella di Roma, perché là si è conservata intatta la fede di Pietro: e qualifica la Chiesa di Roma come quella con la quale “a motivo della sua origine più eccellente deve concordare tutta la Chiesa”. Lo stesso Ireneo ci fornisce l’elenco dei Vescovi di Roma, cui fu trasmesso dopo Pietro “il ministero episcopale”. Alla fine del II secolo, Tertulliano attribuisce alla Chiesa romana un particolare prestigio, perché colà furono martirizzati Pietro e Paolo. Sempre alla fine del II secolo, come ci riferisce Eusebio di Cesarea, il vescovo di Roma, nella discussione sulla data della Pasqua, prende iniziativa per la Chiesa intera al fine di salvaguardare la comunione basata sul “comune consenso”. Intorno al 250 Cipriano di Cartagine, in una lettera a Papa Cornelio, chiama la Chiesa di Roma “la cattedra di Pietro e la Chiesa principale, da cui è emanata l’unità sacerdotale” (“Petri cathedra atque ecclesia principalis, unde unitas sacerdotalis exorta est”); egli attribuisce a Roma lo stesso ruolo che Gesù diede a Pietro, quello di confermare i fratelli, affermando poi che “gli altri Apostoli erano uguali a Pietro, egualmente partecipi dell’onore e della potestà (di consacrare) e che per l’amministrazione della loro diocesi sono responsabili (soltanto) verso Dio” (K. Bihlmeyer, H. Tuechle). Sant’Ambrogio (339 o 340-397) dirà: “Ubi Petrus, ibi ergo Ecclesia”, “Dove c’è Pietro, là c’è la Chiesa”. Leone Magno (440-461) qualifica il vescovo di Roma come “successore di Pietro”, intervenendo al secondo Concilio della storia della Chiesa, il Concilio di Calcedonia, nel 451.
La dottrina sul primato di Pietro venne solennemente affermata nei Concili medioevali, soprattutto nel Concilio di Lione (1274) e nel Concilio di Firenze (1439), e infine ribadita nel Concilio Vaticano I (1870) e nel Concilio Vaticano II.
“Il Vescovo della sede romana non è «più» Vescovo di colui che presiede una Chiesa locale. Il Papa, però, svolge in maniera unica il suo ministero, quello dell’unità, che è a favore di tutti i Vescovi” (S. T. Stancati).
Purtroppo da una visione in cui i ministeri erano davvero servizi ecclesiali si passò dal Medioevo a una “visione ecclesiologica in cui l’aspetto gerarchico è messo in primo piano ed occupa il massimo grado: la Chiesa coincide con la gerarchia… La Chiesa viene considerata come una grande diocesi con a capo il Papa, mentre i vescovi (e le Chiese locali) non sono altro che vicari dello stesso pontefice… Ad esempio Egidio Romano, nel suo «De ecclesiastica potestate», stabilisce un’equivalenza tra la persona del Papa e la Chiesa stessa: «Papa qui potest dici Ecclesia» (il Papa, vale a dire la Chiesa). Un’accentuazione di tipo curiale ci sarà anche quando il potere della curia romana diventerà così importante da potersi sostituire alla stessa dicitura di «Chiesa romana»: «Nunc dicitur Curia Romana quae ante hac dicebatur Ecclesia Romana» («Ora si chiama Curia Romana quella che una volta si chiamava Chiesa Romana»), diceva Gerloh di Reichenberg” (S. T. Stancati). Quale distorsione e impoverimento nella concezione della Chiesa, purtroppo tanto presente ancora ai nostri giorni!
Il Concilio Ecumenico Vaticano II descrive la Chiesa universale come “«comunione di Chiese» locali – diocesane – particolari, articolata «a partire da esse» e «in esse» (LG, n. 23) … La Chiesa è guidata da tutto il collegio episcopale con il suo capo, il vescovo di Roma (LG, n.21) “ (S. Pié-Ninot).
Ricordava padre Turoldo: “La Chiesa è un organismo, non un’organizzazione; non è uno stato, ma una vita… L’istituzionalismo è un mezzo e non un fine. Lo stesso ordine e le leggi sono per la vita, non la vita per le leggi”.
RIPENSARE IL MINISTERO PETRINO
Anche per portare avanti il dialogo ecumenico, bisogna che, pur nella fedeltà alla Scrittura e alla Tradizione, si ripensino, come più volte hanno anche auspicato gli ultimi Papi, i modi di vivere i ministeri e anche il primato del Vescovo di Roma. Giovanni Paolo II, in modo particolare nell’Enciclica “Ut unum sint”, ha voluto rivolgere specialmente ai pastori ed ai teologi l’invito a “trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova…, giacché per delle ragioni molto diverse e contro la volontà degli uni e degli altri, ciò che doveva essere un servizio ha potuto manifestarsi sotto una luce abbastanza diversa… Lo Spirito Santo ci doni la sua luce…, affinché possiamo cercare, evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri” (n. 95).
Occorre quindi che anche il ministero petrino venga ripensato nelle sue modalità di espressione, come ricordava l’allora cardinal Ratzinger quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: “«La Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo» (LG, n. 48). Anche per questo, l’immutabile natura del Primato del Successore di Pietro si è espressa storicamente
attraverso modalità di esercizio adeguate alle circostanze di una Chiesa pellegrinante in questo mondo mutevole. I contenuti concreti del suo esercizio caratterizzano il ministero petrino nella misura in cui esprimono fedelmente l’applicazione alle circostanze di luogo e di tempo delle esigenze della finalità ultima che gli è propria (l’unità della Chiesa). La maggiore o minore estensione di tali contenuti concreti dipenderà in ogni epoca storica dalla «necessitas Ecclesiae». Lo Spirito Santo aiuta la Chiesa a conoscere questa «necessitas» ed il Romano Pontefice, ascoltando la voce dello Spirito nelle Chiese, cerca la risposta e la offre quando e come lo ritiene opportuno”.
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.