Vangelo di domenica 26 gennaio III Domenica C: Luca 1, 1-4; 4, 14-21
GESU’, IL GIUBILEO!
1 Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, 2 come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, 3 così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, 4 perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
14 Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15 Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi.
16 Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. 17 Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
18 Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
19 e predicare un anno di grazia del Signore.
20 Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. 21 Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi».Lc 1, 1-4; 4, 14-21
Cari Consorelle e Confratelli delle Misericordie, sono Carlo Miglietta, medico, biblista, laico, marito, papà e nonno (www.buonabibbiaatutti.it). Anche oggi condivido con voi un breve pensiero di meditazione sul Vangelo, con particolare riferimento al tema della misericordia.
IL PROLOGO DEL VANGELO DI LUCA
I Vangeli non sono opere scritte a tavolino, come la biografia di un personaggio. I Vangeli nascono dalla predicazione che si tramanda oralmente. Gli apostoli, dal giorno della Pentecoste non si preoccupano di scrivere una “vita di Gesù”, ma si buttano nelle piazze e sulle strade a “predicare” agli ebrei loro contemporanei che Gesù, l’uomo di Nazareth crocifisso, è il messia atteso, che Dio ha risuscitato dai morti. Per farsi un’idea di questa predicazione basta leggere il capitolo 2 del libro degli Atti, che riporta il primo discorso missionario (tecnicamente si dice “kèrigma”, cioè annuncio) di Pietro il giorno di Pentecoste. I primi cristiani erano ebrei che frequentavano il tempio a Gerusalemme e la sinagoga nelle altre città e villaggi. Qui ascoltavano la Parola di Dio, cioè quello che noi oggi chiamiamo l’Antico Testamento.
Luca è il solo evangelista che premette al suo scritto un prologo nel quale dichiara, nei primi due versetti, le fonti a cui attinge: “Coloro che furono testimoni (“autoptai”) e divennero ministri della parola (“yperetai tou logou”)” (gli apostoli) e nei due versetti successivi, lo scopo e le caratteristiche del lavoro che intraprende: “Ho deciso di fare ricerche accurate e di scriverne un resoconto ordinato… perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti”.
In questo prologo, Luca adotta un classico stile greco e un vocabolario che si ritrova identico in trattati ellenistici dell’epoca, in cui si dichiarano le finalità per cui si scrive un libro e il metodo che si è seguito.
Luca precisa che si è preoccupato di porsi scrupolosamente in ascolto della tradizione ecclesiale e di scriverne un resoconto ordinato: “anothen”, “da principio”, e “acribòs”, “con cura”. Quest’ultima annotazione non indica in primo luogo un ordine cronologico: intende piuttosto precisare che l’opera illumina il modo in cui Dio guida, avvenimento dopo avvenimento, il suo disegno di salvezza nella storia. Luca ha indubbiamente una preoccupazione di storicità, ma conoscendo le opere degli storici greci e latini suoi contemporanei, cerchiamo di non proiettare sul progetto di Luca la concezione moderna della ricerca storica.
L’opera è dedicata all’“egregio Teofilo”, un convertito di origine pagana, che forse occupava un posto importante nell’amministrazione romana: oppure è un nome simbolico che richiama i cristiani in genere, “amanti di Dio”, come vuole l’etimologia del nome “Teofilo”. Lo scopo a cui mira Luca è quello di “convincere Teofilo della solidità degli insegnamenti ricevuti”.
Due annotazioni. La prima è che la trasmissione degli avvenimenti di Gesù avvenne in una comunità di credenti: questo è il senso fondamentale dell’espressione “servi della Parola”, che Luca applica direttamente ai primi testimoni, ma anche ai successivi testimoni. Servitore della Parola dice l’atteggiamento di chi si assoggetta alla Parola e cerca con ogni cura di non tradirla, e indica anche che i testimoni si lasciano coinvolgere dalla Parola che trasmettono: sono discepoli del Signore, non persone neutrali.
La seconda annotazione è che non basta affermare che gli avvenimenti di Gesù esigono di essere trasmessi in una comunità credente. Occorre andare oltre e precisare che la vita della comunità fa intimamente parte degli avvenimenti stessi: infatti occorre annunciare un Cristo vivo, che opera attualmente, non un semplice ricordo del passato. La comunità è il luogo in cui gli avvenimenti di Gesù tornano ad essere vivi, attuali e salvifici, tornano ad essere “Vangelo oggi”, cioè storia di salvezza che accade “fra noi”. È in forza di questa intuizione che Luca può parlare, con molta profondità, di “avvenimenti accaduti fra noi”, cioè nella comunità cristiana, pur essendo in realtà accaduti nel passato. Ed è per lo stesso motivo che egli sente il bisogno di scrivere, in continuità con la storia di Gesù, la storia della Chiesa: gli Atti degli Apostoli.
GESÙ, L’ANNO DI GRAZIA
Nell’Antico Testamento (Lv 25,8-41), il Signore propone il Giubileo come forma suprema di tutela dei diseredati e dei miseri. In una società dove le inesorabili vicende della vita portano alcuni ad arricchirsi ed altri a impoverirsi, quando non addirittura a fallire, Dio esorta Israele a vivere periodicamente un anno, detto “giubilare”, come momento di completa ridistribuzione dei beni e di ricomposizione di una società di uguali. Ogni cinquant’anni Dio propone il completo azzeramento della proprietà privata e una nuova ripartizione tra fratelli.
Nel Nuovo Testamento c’è un brano che richiama esplicitamente il Giubileo prescritto nel Levitico: è quello in cui Gesù, nella sinagoga di Nazaret, applica a sé l’oracolo di Isaia (Is 61,1-2), annunciando di essere stato consacrato per “predicare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4,16-21). L’anno “dektòs” (Lc 4,19.24; At 10,35), cioè “accetto”, “gradito” o, come traducono le nostre Bibbie, “di grazia”, è infatti l’anno giubilare, l’anno che realizza il sogno di Dio di un mondo di uomini liberi, uguali, veramente fratelli: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19). Gesù annuncia quindi di essere stato “mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio”: per gli ebrei questo “vangelo” era per antonomasia la notizia della fine della schiavitù.
Facendo esegesi di questa proclamazione così importante, con cui Gesù connota la sua missione, si nota che il egli in realtà modifica il testo di Isaia (Is 61,1-2): omette il “fasciare le piaghe dei cuori spezzati” (Is 61,1), forse per non dare adito ad eccessive spiritualizzazioni, ed aggiunge “per rimettere in libertà (“àphesis”) gli oppressi”, versetto preso invece da un altro passo di Isaia (Is 58,6), proprio per sottolineare la massima concretezza del suo intervento di liberazione. Inoltre trascura di parlare del “giorno di vendetta per il nostro Dio” (Is 61,2), il giorno della condanna delle nazioni pagane, dando così una dimensione universalistica alla sua proclamazione giubilare. L’intento di Gesù è chiaro: dichiarare la liberazione (“àphesis”) da ogni sperequazione sociale, da ogni sofferenza, da ogni angheria, proclamare finalmente “beati” i poveri, gli affamati, gli afflitti (Lc 6,20-21), di tutte le nazioni della terra
Ma nel Nuovo Testamento il termine “àphesis” acquisterà un’interpretazione eminentemente religiosa: in quindici dei diciassette passi in cui compare individua il “perdono” dei peccati (Mc 1,4; Mt 26,28; Lc 1,77; At 2,38; Eb 9,22…). Questo significa, nell’annuncio complessivo neotestamentario, che solo riconciliati con Dio si diventa capaci di costruire un mondo di giustizia e libertà; solo liberati dal peccato, riempiti dall’amore di Dio, si può “consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1,4); ma anche che non esiste perdono dei peccati se la conversione non trasforma in operatori di giustizia verso gli emarginati.
Attenzione quindi al movimento di questa rivelazione: si esige la conversione, la riconciliazione, ma non per un intimistico senso di essere salvati, ma per affrancare già fin d’ora tutti gli oppressi della terra; e la nostra giustizia umana è l’indispensabile base per rendere operante in noi la divina giustificazione; certi però che la Salvezza divina non si esaurisce nello spazio di questo mondo, ma che trascende le liberazioni umane nella divinizzazione dell’uomo in Dio (Rm 8,17). A Nazaret, Gesù, dopo aver letto il succitato brano di Isaia, fa un annuncio fondamentale: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura” (Lc 4,21): le caratteristiche dell’anno giubilare si compiono ormai nel Cristo! Gesù, che è “l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega” (Ap 21,6), dà ormai inizio agli “ultimi tempi” (Eb 1,2), all'”ultima ora” (1 Gv 2,18), perché in lui “è giunto fra noi il Regno di Dio” (Mt 12,28). In Gesù Cristo si compie ormai “l’anno di grazia” giubilare, si realizzano la fratellanza e l’uguaglianza tra gli uomini sognate da sempre da Dio.
IL MESSIA DEI POVERI
Fin dall’inizio della sua vita pubblica, Gesù proclama quindi di essere venuto per la liberazione dei poveri e degli oppressi. E quando Giovanni il Battista gli manda a chiedere se sia lui il Messia, Gesù dice: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella” (Lc 7,18-22). La risposta di Gesù ai messi del Battista si articola in sei segni: l’unico non miracoloso sta per ultimo, ma è il più importante, perché li riassume tutti: “Ai poveri è annunziata la buona novella” (Lc 7,22). Gesù viene per tutti i bisognosi, per quelli privi di salute, di vita, di beni…
La sua vita fu tutta un aiutare concretamente chi era nella sofferenza: “Passò beneficando e risanando tutti” (At 10,38). Tutti gli Evangeli insistono sulla sua attività di straordinario taumaturgo, sui suoi miracoli: “Condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici: ed egli li guariva” (Mt 4,24; cfr 9,35); “Molti lo seguirono ed egli guarì tutti” (Mt 12,15; cfr 14,35-36; 19,2; Mc 1,32-34; 6,54-55; Lc 4,40); “Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti” (Lc 6,18-19; cfr 9,11; Gv 5,21)…
Gesù non solo soccorre concretamente i tribolati che incontra: egli è venuto per “evangelizzarli”, cioè per far loro conoscere che essi sono amati in maniera particolare da Dio, e che Dio porrà fine alle loro sofferenze, per il tramite dell’incarnazione, morte e resurrezione del Figlio.
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.