Vangelo di domenica 23 marzo III Domenica di Quaresima anno C – Luca 13, 1-9

1 In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. 2 Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? 3 No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4 O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5 No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
6 Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7 Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? 8 Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime 9 e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai».

Lc 13, 1-9

Cari Consorelle e Confratelli delle Misericordie, ​sono Carlo Miglietta, medico, biblista, laico, marito, papà e nonno (www.buonabibbiaatutti.it). Anche oggi condivido con voi un breve pensiero di meditazione sul Vangelo, con particolare riferimento al tema della misericordia.

PERCHE’ IL DOLORE?

La mentalità etico-giuridica ebraica e poi del mondo romano hanno spesso presentato l’incarnazione del Figlio come momento necessario affinché egli potesse sacrificarsi, morendo in croce, e dare così, essendo il Figlio infinito, soddisfazione adeguata all’offesa infinita arrecata dall’uomo a Dio con il peccato. Ma questa idea di un Padre irato e vendicativo che esige totale soddisfazione dell’offesa, e che si placa solo con l’immolazione del Figlio, non può non porci problema.

Ma la morte di Cristo non fu “la necessità della volontà di un Dio avido di riparazione per la sua maestà offesa… L’equivoco di questa teologia, che proietta indiscriminatamente il dolore e la croce nel senso di Dio stesso, consiste nell’accettare il Padre come l’assassino di Gesù. L’ira divina non si sazia con la vendetta sui figli, fratelli di Gesù: si estende al Figlio unigenito. Così il parricidio assume una dimensione sacrale e teologale. A una visione talmente macabra dobbiamo rifiutare ogni legittimità cristiana, perché distrugge tutta la novità del Vangelo… Tale rappresentazione… ha molto poco a vedere con il Dio-Padre di Cristo… Dio assume i tratti del giudice crudele e sanguinario, pronto a richiedere fino all’ultimo centesimo i debiti che si riferiscono alla giustizia… Ma questo è il Dio che abbiamo imparato ad amare e a cui ricorrere, sulla base dell’esperienza di Cristo? È ancora il Dio del Figliol prodigo, che sa perdonare? Il Dio della pecorella smarrita, che lascia le novantanove nell’ovile e va a cercare sui prati l’unica smarrita?” (L. Boff).

Il modello di comprensione elaborato invece secondo la mentalità greca pare più consono alla rivelazione di Gesù intorno al Padre e ai testi neotestamentari che enfatizzano il ruolo del Cristo già nella creazione. Tale concezione parte da questa riflessione: Dio ha creato l’uomo per amore: ma essendo, secondo la metafisica greca, infinito, illimitato, eterno, per creare qualcuno che potesse essergli partner nell’amore e che fosse quindi altro da sè lo ha dovuto creare finito, limitato, mortale. Il dolore, la malattia, la morte, non sono perciò una “punizione”, ma fanno parte dell’ordine biologico, del nostro essere creature e quindi “non-Dio”, e perciò privi della sua perfezione.

Infatti ben prima della comparsa dell’uomo, nel corso della storia della terra e dell’evoluzione, milioni di individui viventi hanno sperimentato la morte, milioni di specie si sono estinte, tra cui i famosi dinosauri. Questa riflessione, che talora chiamo… “Jurassic Theology”, o “teologia dei dinosauri”, ci porta ad affermare che il peccato dell’uomo non può essere stato la causa della morte fisica: l’invecchiamento, la sofferenza, la morte sono parte integrante della natura biologica, sono caratteristiche del modo di essere delle creature (Catechismo Chiesa Cattolica, nn. 302.310).

Ma Dio si commuove in profondità per la condizione dell’amato, e nel momento stesso in cui lo crea finito, limitato, mortale pensa per lui il modo di farlo partecipe della sua vita infinita, illimitata, immortale: per questo, nel momento stesso in cui crea, Dio progetta l’incarnazione del Figlio, per mezzo della quale Egli stesso si farà finito, sussumerà il limite dell’uomo e del creato fino alla morte e, per il mistero della sua resurrezione, porterà la finitudine umana nell’eternità e nell’immensità della sua vita divina, facendoci suoi figli ed eredi (Rm 8,17). Come dice S.Atanasio, “Dio si è fatto uomo perchè l’uomo si facesse Dio” (De incarnazione Verbi, n. 54).

L’incarnazione del Figlio non è quindi un “incidente di percorso” dovuto al peccato dell’uomo, ma è gesto creazionale, il compimento dell’attività creatrice di Dio, la realizzazione del suo progetto d’amore sull’uomo, che diventa al contempo in Cristo capace di relazione personale con Dio e partecipe della sua stessa vita e beatitudine (Gv 1,1-3; Col 1,16-17).

PORTARE FRUTTO

Per la salvezza Gesù non richiede soltanto un’adesione formale a lui. La sequela del Maestro implica opere concrete di giustizia e di amore. Come esorterà Giovanni: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1 Gv 3,18). Il messaggio di Gesù in tal senso è chiarissimo.

Non basta una religiosità esteriore, meramente cultuale. Gesù “passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Rispose: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità! Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori»” (Lc 13,22-30).

Non basta neppure fare miracoli o profetare in nome di Cristo: occorre fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti. Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano…! Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere. Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: «Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?». Io però dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità»” (Mt 7,12-23).

E il portare buoni frutti e l’operare la giustizia significano l’attenzione concreta e fattiva verso i bisognosi. Dirà in proposito Giacomo: “Certo, se adempite il più importante dei comandamenti secondo la Scrittura: «Amerai il prossimo tuo come te stesso», fate bene; ma se fate distinzione di persone, commettete un peccato e siete accusati dalla legge come trasgressori… Il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio. Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede ed io ho le opere»; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede. Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza calore? Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta e si compì la Scrittura che dice: «E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia», e fu chiamato amico di Dio. Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede. Così anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità agli esploratori e averli rimandati per altra via? Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta” (Gc 2,8-26).

Buona Misericordia a tutti!

Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.

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