Vangelo di Domenica 14 luglio: Marco 6, 7-13
XV Domenica anno B
7 Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi. 8 E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; 9 ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche. 10 E diceva loro: «Entrati in una casa, rimanetevi fino a che ve ne andiate da quel luogo. 11 Se in qualche luogo non vi riceveranno e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere di sotto ai vostri piedi, a testimonianza per loro». 12 E partiti, predicavano che la gente si convertisse, 13 scacciavano molti demòni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano.
Mc 6, 7-13
Cari Consorelle e Confratelli delle Misericordie, sono Carlo Miglietta, medico, biblista, laico, marito, papà e nonno (www.buonabibbiaatutti.it). Anche oggi condivido con voi un breve pensiero di meditazione sul Vangelo, con particolare riferimento al tema della misericordia.
GESÙ MANDA I DISCEPOLI IN MISSIONE (Mc 6, 7-13)
Gesù manda i suo Discepoli a due a due perché secondo il libro del Deuteronomio (Dt 19,15), una testimonianza per essere valida doveva esse data da due persone. La testimonianza di una sola persona non basta per far condannare chi ha commesso un delitto, un crimine o una qualsiasi colpa. L’accusa dovrà essere provata da almeno due testimoni.
Negli Evangeli e negli Atti spesso vengono presentate delle coppie di Apostoli, alcune di queste coppie sono famose: Pietro e Giovanni, Cleofa e 1’altro discepolo di Emmaus, Giovanni ed Andrea all’inizio del Vangelo di Giovanni; negli Atti, Barnaba e Saulo, poi Barnaba e Marco che sono cugini, poi Paolo e Sila, e anche coppie di sposi, come Aquila e Priscilla, Andronico e Giunia.
Ma c’è un significato più profondo per cui Gesù manda i suoi a due a due. Gesù non opera da solo come gli antichi Profeti: Gesù vive in comunità, vuole che i suoi vadano due a due proprio per dare testimonianza di vita comunitaria. La fede cristiana non è per gli individualisti: non sono io che mi salvo l’anima relazionandomi da solo con il mio Signore; la fede cristiana è la comunità che sta con Gesù. E’ il ricevere i fratelli. La fede cristiana è vita comunitaria, è appartenenza ad un Popolo, al Popolo di Dio, appartenenza ad un’assemblea, “Ecclesia”, la Chiesa.
Ed è questa comunità che è chiamata a stare con Gesù, che è inviata in Missione, che scaccia i demoni, che guarisce gli infermi.
I discepoli sono mandati per cacciare i demoni: “Li mandò a due a due e diede loro il potere sugli spiriti immondi”: l’unico compito della Chiesa è cacciare i demoni, cioè lottare contro lo spirito del male, che è spirito di egoismo, spirito di potere, spirito di sfruttamento, spirito di menzogna, spirito di asservimento dell’uomo, spirito di dominio. E’ contro questo spirito che la Chiesa deve condurre la sua lotta, e la comunità cristiana deve battersi, in ogni ambito, in ogni occasione.
Questo brano è la Magna Carta della Chiesa se vuole essere fedele al suo mandato. E’ un manualetto, che si dava in mano ai primi cristiani, con norme in parte probabilmente date da Gesù stesso, una sorta di vademecum dei primi predicatori della Chiesa Apostolica.
Quale è lo spirito che soggiace a queste esortazioni? La radicalità necessaria per testimoniare l’Evangelo.
Se si analizziamo i brani paralleli riportati negli altri sinottici, Matteo e Luca (Mt 10,1.5-15; Lc 9,1-8), si notano alcune differenze.
Il tema dell’abbandono dei beni è presente nelle indicazioni che Gesù dà ai dodici apostoli, mandandoli in missione: “Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: «Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento»” (Mt 10,5-10). Luca, al solito più radicale, premette: “Non prendete nulla per il viaggio”, e poi riprende l’elenco matteano: “né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche per ciascuno” (Lc 9,3), aggiungendo “il pane” e omettendo “i sandali”, e senza concludere con il richiamo al diritto al nutrimento, quasi a sottolineare il valore in sé di una testimonianza povera. Marco invece concede ai Dodici il bastone e i sandali: “E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche” (Mc 6,8-9). Forse è già una mitigazione della prima comunità, che però non toglie il senso del profondo richiamo ad una missione povera, tutta affidata a Dio e non ai mezzi umani.
In un altro brano di Luca, l’invito di Gesù è esteso a tutti i settantadue discepoli: “Il Signore designò altri settantadue discepoli… Diceva loro: «Non portate borsa, né bisaccia, né sandali»” (Lc 10,4).
Matteo non permette il bastone perché scrive agli ebrei, e diceva il Talmud, commentario della spiritualità ebraica: “Non si entra con il bastone nella casa di Dio, né con i sandali né con la bisaccia”: quindi era un senso di sacralità entrare senza bastone.
Marco permette anche i sandali perché scrive agli italiani: a causa del clima freddo, dà loro i sandali.
Inoltre Matteo dice di non predicate ai pagani (Mt 10,5), mentre Marco, che parla agli italiani, ovviamente lo ammette.
Ma al di là di queste differenze, che sono dovute alle comunità che recepiscono il messaggio, la chiamata è ad una povertà radicale. La povertà radicale è l’essenza dello stare con Gesù. Stare con Gesù significa essere poveri, come il Figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo. La missione è testimoniare con la propria vita che l’unico tesoro è Gesù Cristo, e che quindi non ci si affida ai tesori umani. La povertà è “sacramento”, è “segno efficace” della nostra fede in Dio.
Senza povertà non c’è fede: i discepoli sono coloro che devono confidare solo in Dio, quel Dio che provvede agli uccelli del cielo e veste i gigli del campo.
La Chiesa potrà testimoniare il Cristo solo quando potrà parlare al mondo, come Pietro e Giovanni, che alla porta Bella del Tempio dicono allo storpio: “Guarda verso di noi. Non abbiamo né argento né oro, ma quello che possediamo te lo diamo: nel nome di Gesù Nazareno alzati a cammina” (At 3,1-10). Se avessero avuto oro e argento, gli avrebbero fatto l’elemosina, ma avrebbero lasciato l’uomo storpio come prima. Non hanno né oro né argento, ma annunciano Cristo con la sua “exousìa” e “dynamis”, con la sua autorità e la sua potenza. Capaci di guarire i malati, di risuscitare i morti, di convertire i peccatori. Ed è per questo – ci introduciamo nella “Sezione del pane” (Mc 6,6-8,26) – che i discepoli non dovranno portare con loro la bisaccia, non dovranno portare neanche il pane perché, come leggeremo in Mc 8,14, hanno con loro il pane unico che è Cristo stesso. Nel loro spogliamento, nel loro svuotamento, nel loro non affidarsi a nulla di concreto e di terreno testimonieranno che solo Cristo è il pane che sfama completamente.
Le norme di andare nella prima casa che capita e fermarsi lì sono proprio date perché non si scelgano la casa più bella, perché non scelgano la casa dei ricchi, perché non cerchino l’appoggio dei potenti. In Marco si dice di scuotere il fango: siamo in Italia; Matteo dice di scuotere la polvere, perché era nel deserto. E’ un gesto simbolico che ogni israelita compiva quando passava in terra pagana. E’ un gesto di separazione, un gesto di accusa, ma esprime anche l’assoluta non violenza, liberalità, gratuità, libertà, con cui è offerto il messaggio. Io offro la Parola cristiana: se non l’accettano non importa, non la porto con la spada e con le crociate: scuoto i calzari: è un gesto di assoluta gratuità.
I discepoli devono predicare, scacciare i demoni, guarire gli infermi: i discepoli quindi predicano la Parola e la significano con gesti concreti, come cacciare i demoni e guarire i malati con olio. La loro missione è quindi evidentemente una missione divina, perché annunciano il Regno, rendono noto che Dio è venuto in mezzo agli uomini, ma questa testimonianza va confermata da gesti di liberazione umana.
Il grande binomio della vita cristiana è evangelizzazione e promozione umana. Il Concilio insiste sempre, quando parla della missione di tutti i credenti, dei preti, delle suore dei laici, che essi devono testimoniare in parole ed opere. E’ un ritornello che si radica proprio su questo: il credente non è solo colui che annuncia l’Evangelo: il credente è colui che pone dei gesti concreti della novità del Regno. Quindi crea delle situazioni di comunione, di solidarietà, di aiuto ai poveri, di reintegrazione di coloro che sono esclusi. La nostra testimonianza è monca se manca la Parola o se mancano le opere.
Non siamo chiamati a fare solo della carità, a creare un mondo nuovo: noi abbiamo un qualche cosa di più da dire agli altri: abbiamo da dire che Cristo è Risorto, vince la nostra morte, che Cristo guarisce i nostri peccati, ci fa figli di Dio. Ma non possiamo neanche dire soltanto: “Andremo tutti in Paradiso: coraggio!”. Dobbiamo già oggi porre concretamente i segni di novità di vita che il grande messaggio della vittoria del Cristo sui male e sulla morte hanno portato nella storia: e questi segni sono la sua carità fraterna, sono l’aiuto agli ultimi, sono la condivisione dell’ultimo posto.
Il Vangelo di Marco è il Vangelo del discepolo: questo brano non è rivolto ai preti o alle suore, o a quelli che partono missionari. Questo brano lo dobbiamo rileggere nella pace, nella calma, in ognuno di noi, perché la chiamata la missione in povertà e in gesti vale per ciascuno di noi. Diceva il Concilio: “La Chiesa, quando prende coscienza di sé, si riscopre per sua natura missionaria” (Ad gentes, n. 2). Ciascuno di noi, in base al suo Battesimo, ha ricevuto la missione profetica: ciascuno di noi è un profeta, dal greco “profaino”, “parlo a nome” di Dio. Ciascuno di noi deve parlare a nome di Dio.
Oggi Dio non ha altra bocca per parlare, non ha altre mani per abbracciare, non ha altri piedi per arrivare, che la bocca, le mani e i piedi di ciascuno di noi. II Concilio ribadisce che ci sono luoghi e circostanze in cui, se non arriva il laico, non arriverà mai il Regno di Dio (Lumen gentium, n. 33). Ciascuno di noi deve quindi prendere coscienza di essere evangelizzato per evangelizzare, di essere chiamato per chiamare. La parola ebraica “profeta” è ‘“nabim”, che deriva dall’accadico “nabu”, che vuol dire chiamare “il chiamato”: il cristiano è colui che è chiamato per chiamare. II cristiano è profeta perché è stato convocato per convocare.
Dobbiamo riscoprire l’urgenza dell’evangelizzazione, dell’“andare a due a due nel mondo ad annunciare il Regno di Dio, a guarire i malati a cacciare i demoni”. Se il grande amore che sostiene la nostra vita è Gesù Cristo, dobbiamo sentire il bisogno di raccontare agli altri e di testimoniare concretamente questo amore. Nella misura in cui siamo cristiani siamo tutti apostoli, cioè “inviati, mandati”.
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.