Vangelo di domenica 06 ottobre: Marco 10, 2-16
XXVII Domenica anno B
2 E avvicinatisi dei farisei, per metterlo alla prova, gli domandarono: «È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?». 3 Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». 4 Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla». 5 Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. 6 Ma all’inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; 7 per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. 8 Sicché non sono più due, ma una sola carne. 9 L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto». 10 Rientrati a casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento. Ed egli disse: 11 «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; 12 se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio».
13 Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. 14 Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. 15 In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso». 16 E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benediceva.
Mc 10, 2-16
Cari Consorelle e Confratelli delle Misericordie, sono Carlo Miglietta, medico, biblista, laico, marito, papà e nonno (www.buonabibbiaatutti.it). Anche oggi condivido con voi un breve pensiero di meditazione sul Vangelo, con particolare riferimento al tema della misericordia.
Il Deuteronomio aveva concesso al marito la possibilità di divorziare, se avesse trovato nella moglie “qualcosa di sconveniente”, eruat dabar (Dt 24,1). Ma sull’interpretazione dell’eruat dabar si erano create, ai tempi di Gesù, due scuole: quella di Rabbi Shammai, che ammetteva il divorzio solo in caso di adulterio, e quella di Rabbi Hillel, secondo cui qualsiasi motivo era sufficiente per ripudiare la consorte: bastava che la moglie avesse lasciato bruciare una pietanza, o che avesse perso la sua bellezza giovanile, o che il marito si fosse trovato una compagna più piacente.
I Farisei si avvicinarono a Gesù per vedere con quale delle due correnti teologiche si schierasse. Per essi era assodato che Gesù ammettesse il divorzio, essendo questo previsto esplicitamente dalla Legge; il problema, secondo loro, era se lo concedesse solo in caso di adulterio come Rabbi Shammai o “per qualsiasi motivo” (Mt 19,3), come Rabbi Hillel.
Gesù spiazza tutti, affermando che il divorzio è stato concesso solo per la sclerocardìa, la “durezza del cuore” (Mc 10,5) di Israele, concetto equivalente all’ebraico orlat lebab, la chiusura dell’uomo al piano di Dio. Gesù afferma quindi che il progetto di Dio sul matrimonio non va ricercato nel Deuteronomio, ma proprio nel libro della Genesi, il cui nome ebraico è Bereshit, “In principio”: gli ebrei non chiamavano i libri della Scrittura con i nomi che noi abbiamo loro dato, ma con le prime parole del libro stesso, e la Genesi inizia infatti con: “In principio Dio creò…” (Gen 1,1). “Ma «in principio» (ndr: cioè nel libro della Genesi)… Dio li creò maschio e femmina: per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una sola carne. Sicché non sono più due, ma una sola carne. L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha unito (ndr: synèuzeuxen: «aggiogò», linguaggio simbolico che fa riferimento al giogo a due)” (Mc 10, 6-9). Si noti come Gesù cita di Gen 2,24 non il testo ebraico (“ed essi…”), ma quello greco dei LXX (“i due…”), che è già un’interpretazione forte in senso monogamico, proponendo addirittura, come abbiamo visto, un illogico matematico: “due uguale a uno”! È Dio stesso che fa dei due un’unità, inscindibile e indissolubile: chi attenta all’unità matrimoniale rifiuta il progetto creazionale di Dio.
A differenza del testo del Vangelo di Marco e di quello di Luca, il brano parallelo di Matteo presenta, insieme al rifiuto del divorzio, il famoso inciso che tanto ha fatto discutere: “Chiunque ripudia la propria moglie, eccetto che in caso di porneìa, e ne sposa un’altra commette adulterio (moichàtai)” (Mt 19,9). Sicuramente la porneìa non è il concubinato, come invece traduceva la Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana del 1971, perché non si vede perché l’evangelista debba prevedere un’eccezione specifica per una cosa ovvia.
Alcuni, come le chiese ortodosse o riformate, hanno visto in questa porneìa l’adulterio, e trovano qui il permesso di divorziare in un caso simile. Ma in questo senso ci saremmo aspettati un altro termine, moicheìa, la cui radice ritorna nel verbo usato alla fine del versetto (moichàtai, “commette adulterio”). Inoltre tutto il passo non avrebbe più senso, in quanto Gesù non farebbe che schierarsi con la scuola di Rabbi Shammai, che concedeva il divorzio solo in caso di adulterio, e non si capirebbe più né la sua opposizione alla legge mosaica, né lo stupore manifestato in risposta dai discepoli: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi” (Mt 19,10).
L’esegesi oggi più attendibile ci fa notare come l’inciso della porneìa figuri solo nel Vangelo di Matteo, che scrive per gli ebrei convertiti delle comunità della Palestina e della Siria: costoro continuavano ad attenersi alle consuetudini giudaiche che proibivano la zenut, o “prostituzione” secondo gli scritti rabbinici, cioè quelle unioni considerate incestuose perché contrassegnate da un grado di parentela proibito nel libro del Levitico (Lv 18,6-18), come il matrimonio con la matrigna o con la sorellastra, unioni spesso invece consentite dalla legislazione romana. Di qui la conclusione del Concilio di Gerusalemme, che stabilì per tutti la necessità di astenersi anche “dalla porneìa” (At 15,20.29), cioè da quelle unioni che, pur considerate valide nel diritto romano, erano da considerarsi nulle, perché incestuose, secondo la legislazione ebraica: in questo caso il cristiano non solo poteva sciogliere l’unione ma, in quanto non era un valido matrimonio, aveva il dovere di liberarsene. Sarà la stessa porneìa contro cui si scaglierà Paolo condannando “in balìa di Satana un tale convivente con la moglie di suo padre” (1 Cor 5,1-5). Accettando questa interpretazione, la Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana del 2008 traduce porneìa come “unione illegittima”.
In ogni caso, “la clausola interpolata non può essere interpretata come un’eccezione all’assoluta indissolubilità del matrimonio” (E. Schillebeeckx). Ne è ulteriore prova la chiara affermazione di Paolo, cha fa riferimento non a una propria opinione, come in altri casi (il matrimonio tra credente e non credente, il celibato…), ma a un preciso comando del Signore a riguardo: “Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito e il marito non ripudi la moglie” (1 Cor 7,10-11). In tal senso sarà l’unanime tradizione di tutta la Chiesa antica.
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.