Vangelo di domenica 03 novembre: Marco 12, 28b-34
XXXI Domenica anno B
28 Allora si accostò uno degli scribi che li aveva uditi discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29 Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; 30 amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. 31 E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi». 32 Allora lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; 33 amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34 Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
Mc 12, 28b-34
Cari Consorelle e Confratelli delle Misericordie, sono Carlo Miglietta, medico, biblista, laico, marito, papà e nonno (www.buonabibbiaatutti.it). Anche oggi condivido con voi un breve pensiero di meditazione sul Vangelo, con particolare riferimento al tema della misericordia.
Il primo comandamento
(vedi Mt 22,34-40; Lc 10,25-28)
La grande tradizione rabbinica, nel marasma di prescrizioni e decreti dell’ebraismo, ricercava, secondo il quesito posto a Gesù da un dottore della Legge, quale fosse “il primo” (Mt 22,34-40), “il più grande” (Mc 12,28-31) comandamento, quello necessario “per avere la vita eterna” (Lc 10,25-28), quello che potesse compendiare tutta la Legge e i Profeti (Mt 22,40). Il Talmud diceva che venne Mosè e furono dati 613 comandamenti, 365 negativi (il numero dei giorni dell’anno) e 248 positivi (il numero delle membra del corpo umano); venne Davide e li ridusse a 11, secondo il testo del Salmo 15; Isaia li ridusse a 6, espressi nel capitolo 33 (Is 33,15-16); Michea li portò a 3, secondo il brano di Mi 6,8; ancora Isaia li compendiò in 2, secondo il capitolo 56 (Is 56,1): “Osservate il diritto e praticate la giustizia”; infine Abacuc li ridusse ad uno solo: “Il giusto vivrà per fede” (Ab 2,4).
Gesù insegnò che “il più grande e il primo dei comandamenti” era “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”, ma che il secondo era “simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,37-38); anzi, in Marco si dice: “Non c’è altro comandamento (ndr: al singolare) più importante di questi” (Mc 12,31), e Luca li presenta come un unico comando, omettendo il verbo “amerai”, “agapèseis” (Lc 10,27). Paolo accetta la tradizione talmudica e utilizza il succitato brano di Abacuc (Ab 2,4): “Il giusto vivrà per fede” (Rm 1,17). Ma fede è entrare nella logica del piano d’amore di Dio, perciò Paolo conclude: “Qualsiasi altro comandamento si riassume in queste parole: «Amerai il prossimo tuo come te stesso»… Pieno compimento della legge è l’amore” (Rm 13,9-10); “Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso»” (Gal 5,14). Per questo gli apostoli costantemente esortano: “Al di sopra di tutto vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione” (Col 3,14); “Amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri” (1 Pt 1,22); “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte… Egli ha dato la vita per noi: quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,14.16).
Il “comandamento nuovo” dell’amore vicendevole, che diventerà il distintivo dei discepoli (Gv 13,34), è l’unica traduzione del comando di amare Dio: Dio infatti vuole essere amato nell’uomo: “Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20); “Se uno possiede le ricchezze in questo mondo, e vedendo il proprio fratello nel bisogno gli chiude il cuore, come l’amore di Dio può dimorare in lui?” (1 Gv 3,17); “Chi accogli voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Mt 10,40); “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me… Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,40.45).
Ci ammonisce Paolo: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova” (1 Cor 13,3).
Ormai i cristiani hanno un “comandamento nuovo” che li deve far riconoscere tra tutti gli uomini: amarsi scambievolmente (Gv 13,34). Questo è l’unico criterio di ecclesialità propostoci da Cristo: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).
Perché questo comandamento è “nuovo”? Esso è rivoluzionario per l’origine: ci amiamo perché Dio ci ha amati per primo (1 Gv 4,19). Inoltre l’amore con cui dobbiamo amarci trova la sua fonte in Dio: l’avverbio greco “come” (“kathòs”) nell’espressione “come io vi ho amati” (Gv 13,34) non esprime soltanto un paragone, quanto piuttosto la causalità, la materialità: “Amatevi dello stesso amore con cui io vi ho amati”. È un comandamento nuovo per la misura: non dovremo più soltanto amarci come noi stessi (Mt 19,38), ma come Gesù ci ha amati, cioè “fino alla fine” (Gv 13,1), fino a dare la vita per gli amici (Gv 15,13). Ed è nuovo per l’estensione: non dovremo solo amare i “nostri”, quelli del nostro gruppo, della nostra razza o della nostra religione, quelli che ci stanno simpatici, ma addirittura i nemici: “Infatti, se amate solo quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,46-48), “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,45).
In italiano “prossimo” ha perso la valenza originale del latino “proximus”, “vicinissimo”, derivando dall’avverbio “prope”, che significa “vicino”. In ebraico il corrispondente “re’a” significa “amico, compagno, collega” (Lv 19,18): non si tratta quindi di oggettiva vicinanza, ma piuttosto di soggettiva relazione di amicizia. La questione non è: “Chi merita di essere amato da me? Chi è mio amico?”, ma: “Di chi io sono prossimo? A chi mi faccio vicino?”.
Gesù ci ha detto invece che il prossimo sono tutti i lontani, e si fa prossimo nella Parabola al Samaritano, che era il nemico, che era l’impuro, che è un blasfemo, che è uno che ha fatto guerra ad Israele (Lc 10,29-37).
L’amore sarà poi il segno della nuova Alleanza: la carità reciproca deve essere segno, sacramento tangibile, del supremo atto di affetto di Dio per gli uomini, il sacrificio del Figlio (Mt 26,28).
L’amore fraterno inoltre ci apre al mistero di Dio: “Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4,7-8): tante volte la nostra fede è debole proprio perché non amiamo; amando, possiamo ottenere la “conoscenza” di Dio, cioè entrare nella sua intimità: ricordiamocelo, quando siamo in “crisi di fede”…
Ma il finale di questo brano ci dice che amare non basta: “Gesù, vedendo che quell’uomo aveva risposto con saggezza, gli disse: «Tu non sei lontano dal regno di Dio». E nessun altro aveva più il coraggio di fare domande”. Non sei lontano: non basta amare. Come al giovane ricco dice: “Ti manca qualche cosa”; non basta il comando dell’amore: occorre la sequela di Cristo, occorre accogliere Gesù che di quest’amore è l’incarnazione vivente di Dio per noi oggi.
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.