V Domenica Di Pasqua B – Solo Uniti A Cristo Si Ha La Vita E Si Porta Frutto
Letture: At 9,26-31; 1 Gv 3,18-24; Gv 15,1-8
Nell’Antico Testamento è ricorrente l’immagine della vigna o della vite per designare Israele in quanto popolo di Dio, sua proprietà (Is 5,1-7; 27,2-6; Ger 2,21; 12,10-11; Ez 15,1-6; 19,10-14; Os 10,1-3; Sl 80,9…): e tale metafora è ripresa anche dai Sinottici (Mc 12,1-11; Mt 20,1-16; 21,28-32; Lc 13,6-9; 20,9-19). Ma talora la vite è un simbolo individuale: un re della casa di Davide (Ez 17), la Sapienza personificata (Sir 24,17-21), il Figlio dell’uomo, il Messia (Sl 80,15-16). Nel Vangelo odierno (Gv 15,1-8) Gesù applica a sè questa similitudine. Infatti “Gesù è la vite escatologica, perchè è il Messia, il resto d’Israele, la Parola-Sapienza che prende il posto della legge mosaica e anima il nuovo popolo di Dio dall’interno” (Panimolle).
Gesù è la “vera” vite in opposizione alla sinagoga e al giudaismo sterile, ma anche a tutte le ideologie (lo Stato, la Religione, il Potere, l’edonismo, il materialismo…) che promettono vita all’uomo. Noi esistiamo solo uniti a Gesù: lontani da lui c’è solo morte. È il tema del “rimanere in Cristo”, che tanta importanza ha nel Vangelo di Giovanni: restare nell’amore di Cristo (vv. 9-10), nell’obbedienza ai suoi comandamenti, aderire a lui, credere in lui e nella sua parola, è l’unico modo per avere vita: solo Gesù è la vita (Gv 14,6). Ecco perché nulla è importante come l’annuncio di Gesù e del suo Vangelo: Gesù è la base di tutto, il fondamento di ogni esistenza, il senso vero e profondo del creato e della storia.
Solo in Gesù portiamo frutto: “Senza di me non potete far nulla” (v. 5): tale testo fu citato nel Concilio di Cartagine contro i Pelagiani e nel Concilio di Trento contro i Riformatori, per sostenere l’importanza della grazia e la possibilità per l’uomo, unito a Cristo, di compiere opere buone. Ma non basta essere uniti a Cristo nella fede: bisogna anche “portare frutto”, nell’osservanza dei comandamenti del Signore (v. 10), soprattutto nell’amore fino al dono della vita (vv.12-13), amando “non a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (Seconda lettura: 1 Gv 3,18), e nella testimonianza del Signore anche nella persecuzione, secondo l’esempio di Paolo (Prima lettura: At 9,27-29). E’ infatti vero che “l’uomo è giustificato per la fede” (Rm 3,28), ma “che giova se uno dice di avere la fede ma non ha le opere?”; e “la fede senza le opere è morta” (Gc 2,14.26).
Chi non porta frutto, avrà sprecato la sua vita, l’avrà resa sterile (Gv 5,29; Mc 9,43; Mt 3,10; 13,30; 25,41). Si noti bene che solo il Padre è il vignaiuolo: l’unico padrone della vigna è lui, e nessun altro può arrogarsi il potere di eliminare o potare i tralci; perciò dobbiamo astenerci dal giudicare ed avere sempre grande misericordia verso tutti. Ma anche chi porta frutto viene potato: è la Parola del Signore, “più tagliente di una spada a doppio taglio” (Eb 4,12), che ci monda continuamente, che ci purifica, che ci mette continuamente in crisi per farci migliori, più fedeli, più poveri, più capaci di amore e di servizio, più autentici, più evangelici, più cristiani. Al credente non è risparmiato il dolore, ma nella sofferenza nasce l’uomo nuovo (Gv 16,21).
Nel Vangelo odierno è adombrato il faticoso processo di crescita e di maturazione del credente nella sua unione a Cristo, fino ad arrivare a una reciproca inabitazione: “Se uno mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,.23); ed è anche proposto il mistero della sofferenza che talora colpirà il discepolo, ma che nell’ottica di Dio avrà sempre un valore pedagogico e purificatorio, e che vedrà Dio sempre a fianco dell’uomo per proteggerlo e salvarlo.