Invitati Alla Festa Di Dio
Letture: Ger 21,3-6; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34
Nel Vangelo odierno (Mc 6,30-34), gli Apostoli (“apòstoloi” significa “inviati”) tornano da Gesù a riferirgli l’esito della loro missione. È Gesù il punto di riferimento della chiesa, Colui al quale bisogna continuamente rifarsi: il primo fine della chiamata alla sequela è sempre “stare con Gesù” (Mc 3,14). È sempre lui al primo posto nella nostra vita, la fonte e il culmine di tutta la nostra esistenza?
Gli Apostoli sono veramente degli altri Gesù: come Gesù “fanno” (cfr Mc 3,8), “insegnano” (riferito solo qui ai discepoli: a Gesù, unico Maestro, ventun volte…), devono salire su una barca e allontanarsi dalla folla (cfr 3,9), non han tempo per mangiare (cfr 3,20), si ritirano in un luogo deserto (cfr 1,35): la sequela è imitazione di Cristo! Per noi, Cristo è il nostro modello? In ogni momento, cerchiamo di pensare come lui, di parlare come lui, di agire come lui? E siamo riconosciuti come degli “altri Gesù”?
Gli Apostoli vanno da Gesù e Gesù… li manda in ferie! Il Maestro ci vuole ribadire l’importanza delle pause, degli stacchi, delle vacanze, della dimensione del riposo e della festa: quante volte i credenti non sanno godere, non sanno provare piacere, non sono capaci di allegria e di baldoria. “Ciò di cui… hanno bisogno è indubbiamente un più accentuato senso della festività. La loro serietà morale… rischia di privarli di umorismo. L’ardente anelito a un mondo futuro migliore può talvolta impedire loro di godere quello presente. In certi momenti di festa e fantasia la storia ci consente di assaporare nel presente i primi frutti di ciò che speriamo per il futuro” (H. Cox). Infatti il nostro Dio è “un Dio allegro che danza in mezzo a noi”, come vorrebbe una miglior traduzione di Sof 3,17; ed “il regno di Dio è… gioia” (Rm 14,17). Ancora una volta, ci viene chiesto di avere un cuore di carne (Ez 36,26), capace di emozioni e di passioni, e non un cuore sclerotico (Mc 3,5; 6,52; 10,5).
Gesù ci ricorda anche il primato della contemplazione, del ritiro, del deserto, dell’essere sul fare, di quella “parte migliore che non ci sarà tolta in eterno”, la “sola cosa di cui c’è bisogno” (Lc 10,42). È questo un duro monito per un mondo dove ciò che conta è solo la produzione, e si emarginano coloro che (ammalati, anziani…) non sanno più “rendere”… Ma è anche un richiamo alla chiesa, spesso perduta in un moltiplicarsi di attività, di riunioni, di iniziative, con gli stessi criteri di managerialità mondana. È vero che talora il riposo del credente è aleatorio: esso si realizzerà solo nel Sabato eterno: ma prioritaria deve restare la tensione a momenti di intimità con Gesù, per gustare la sua divina bontà nella pace ben descritta dal Salmo 22 che oggi la Liturgia ci fa pregare.
Gesù “si commosse” vedendo molta folla: il verbo esprime sempre la misericordia di Dio: il padrone che si commuove per il servo che lo supplica (Mt 18,27), il padre per il ritorno del figlio prodigo (Lc 15,20), Gesù per i due ciechi (Mt 20,34), per il figlio della vedova di Naim (Lc 7,13), per il lebbroso (Mc 1,41), per i malati (Mt 14,14), per Lazzaro morto (Gv 11,3-38). Gesù ora ha compassione “perchè erano come pecore senza pastore”. Già nella IV Domenica dopo Pasqua di quest’anno abbiamo meditato sul tema di Dio Pastore del suo popolo, e di Cristo Pastore ideale escatologico profetizzato da Geremia nella prima Lettura (Ger 23,1-6), stupenda metafora del dolcissimo Amore divino. Gesù qui esprime la sua tenera pastoralità sfamando le folle prima con la Parola e poi con il miracolo della moltiplicazione del cibo: una lunga catechesi è propedeutica indispensabile alla comprensione del “mistero del Pane”, che sarà il cuore della Rivelazione. Solo Gesù, ci dice la seconda Lettura, è “la nostra riconciliazione”, “la nostra pace”, “creando in se stesso un solo uomo nuovo” (Ef 2,13-18).