Don Ferdinando Colombo: Visitare i Carcerati
Attualizzare le opere di misericordia con lo sguardo di don Ferdinando Colombo
Se la storia della violenza dell’uomo, male così profondo, così reale, parte da Caino e finisce sulla Croce; per trionfare non c’è altro che la morte di Dio. E se Gesù muore, sceglie di farlo tra due criminali. Uno ne esce divinamente, va dalla disfatta alla vittoria assoluta, primo salvato dalla morte di Cristo. L’altro persisterà nel suo rifiuto della grazia offerta. Per comprendere l’opera di misericordia verso i carcerati dobbiamo partire da quell’insegnamento di Gesù quando racconta della preghiera del pubblicano e del fariseo (Lc.18,9-14).
Una volta c’erano due uomini: uno era fariseo e l’altro era un agente delle tasse. Un giorno salirono al Tempio per pregare. Il fariseo se ne stava in piedi e pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini: ladri, imbroglioni, adùlteri. Io sono diverso anche da quell’agente delle tasse. Io digiuno due volte alla settimana e offro al Tempio la decima parte di quello che guadagno”.
L’agente delle tasse invece si fermò indietro e non voleva neppure alzare lo sguardo al cielo. Anzi si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me che sono un povero peccatore!”. Vi assicuro che l’agente delle tasse tornò a casa perdonato; l’altro invece no. Perché, chi si esalta sarà abbassato; chi invece si abbassa sarà innalzato.
La parabola inizia evidenziando il fatto che “essere giusto” non è mai una condizione nativa della persona umana, infatti, il cristiano non è mai giusto davanti a Dio. L’eccessiva sicurezza della propria innocenza, specialmente quando ha come risvolto pratico un atteggiamento giudicante e intollerante verso il prossimo e verso i suoi errori, è qualcosa che dovrebbe far pensare. Il cristiano non si configura come un uomo “giusto”, bensì come un uomo riconciliato, perdonato, giustificato da Dio. Ecco perché questa parabola mostra questo “quadretto” tra due modelli: l’uomo che difende la sua giustizia personale, che Dio non convalida, e l’uomo che si arrende davanti alla misericordia di Dio e viene giustificato.
Il caso: Storia di Jacques Fesch
Il mondo carcerario è, per natura sua, triste; e tuttavia il male, sia fisico che morale, può diventare l’occasione per un ripensamento serio della vita. Così è avvenuto per molti. Penso alla storia di Jacques Fesch, un giovane ladro e assassino dei nostri tempi, nato nel 1930 e finito sulla ghigliottina il 1° ottobre 1957 per aver ucciso un agente di polizia a Parigi. Jaques, in cella di isolamento, ebbe modo di fare un lungo esame della sua vita e un po’ alla volta riscoprì la fede. Lesse molto, soprattutto i Vangeli, sino ad imbattersi nella giovane carmelitana Therèse de Lisieux, che fu la sua guida spirituale fino al giorno dell’esecuzione. Scrisse lettere tenerissime alla compagna Pierrette, da cui aveva avuto una figlia, Veronique, e che sposò pochi giorni prima di morire. Negli anni del processo ebbe modo di incontrare il Cristo, che nella solitudine della cella può parlare forse più chiaramente che altrove: “Tu pure sei stato portato là dove non avresti voluto andare”, scrisse nel suo diario pensando a Gesù. Ai piedi del Crocifisso imparò, com’egli scrisse, “ad accettare la croce, che poco a poco diverrà leggera; ad offrire la propria sofferenza e le ingiustizie di cui si è vittima; ad amare coloro che ci sferzano. E così un giorno sentirò dirmi come il buon ladrone crocifisso: “In verità ti dico, oggi stesso sarai con me in paradiso”. “La grazia mi ha visitato – concludeva – e una grande gioia si è impadronita di me, e soprattutto una grande pace… È la prima volta che piango lacrime di gioia, avendo la certezza che Dio mi ha perdonato”. L’ultima notte della sua vita, quella tra il 30 settembre e il 1° ottobre 1957, scrisse alla sua bimba una lettera commoventissima “per quando sarà donna”: “Sei così bella, Veronique!”. Poi giunse la sua fine terrena, accolta con pace: “Ultimo giorno di lotta: domani a quest’ora sarò in cielo! Ho fiducia nell’amore di Gesù e so che incaricherà i suoi angeli di portarmi sulle loro mani”. La ghigliottina che recise il suo capo, in realtà, lo liberò come si libera una farfalla dalla crisalide. Ora per lui si parla addirittura di un processo di beatificazione. Con Dio si può anche trasformare la cella d’isolamento in una piccola chiesa, una esistenza sbagliata in un cammino di santità, una lama di ghigliottina in aureola di luce!
Il testimone: Don Giuseppe Cafasso (1811-1860)
Confessore di don Bosco, don Cafasso si dedicò agli ultimi e ai carcerati. Di lui disse Papa Benedetto: «Conosceva la teologia morale, ma conosceva altrettanto le situazioni e il cuore della gente, del cui bene si faceva carico, come il Buon Pastore. Quanti avevano la grazia di stargli vicino ne erano trasformati in altrettanti buoni pastori e in validi confessori. Indicava con chiarezza a tutti i sacerdoti la santità da raggiungere proprio nel ministero pastorale». Era assiduo delle prigioni Senatorie, tanto da rimanervi fino a tarda notte, a volte tutta la notte. Portava sigari e tabacco da fiutare, al posto della calce che i carcerati raschiavano dai muri; ma soprattutto portava alla conversione ladri e assassini efferati. Erano lenti e tormentati pentimenti, altre volte, invece, si trattava di conversioni immediate, che avvenivano anche a pochi istanti prima dell’impiccagione. Di lui disse ancora papa Benedetto XVI: «Dalla sua cattedra di teologia morale educava ad essere buoni confessori e direttori spirituali, preoccupati del vero bene spirituale della persona, animati da grande equilibrio nel far sentire la misericordia di Dio e, allo stesso tempo, un acuto e vivo senso del peccato».
Fratelli, sorelle del carcere: il giubileo, che ci fa incontrare un Padre che perdona e consola, può fare miracoli per tutti e con tutti. “Anche il tempo trascorso in carcere – scrive il Papa – è tempo di Dio e come tale va vissuto. È un tempo che va offerto a Dio come occasione di verità, di umiltà, di espiazione, di fede. L’esperienza giubilare, anche se in carcere, può condurre a insperati orizzonti umani e spirituali”. (Card. Gualtiero Bassetti, Arcivescovo Emerito di Perugia)
PREGHIERA di Paolo VI
Tu ci sei necessario, o Redentore nostro, per scoprire la nostra miseria e per guarirla;
per avere il concetto del bene e del male e la speranza della santità; per deplorare i nostri peccati,
soprattutto quando le vittime sono i bambini, e per averne il perdono.
Tu ci sei necessario, o grande paziente dei nostri dolori,
per conoscere il senso della sofferenza, dello sfruttamento, della violenza e per dare ad essa un valore di espiazione e di redenzione.
Tu ci sei necessario, o Cristo, o Signore, o Dio con noi,
per camminare nella gioia e nella forza della tua carità, fino all’incontro finale con te amato, con te atteso,
con te benedetto nei secoli. Amen
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- “Le Opere di Misericordia“, don Ferdinando Colombo