Domenica di Pasqua
La Resurrezione: la più grande prova della Misericordia di Dio
Molti artisti hanno voluto rappresentare questo evento straordinario che ha coinvolto l’intero universo e ci hanno lasciato importanti capolavori.
Lo scrittore e filosofo inglese Aldous Huxley (1894/1963), arrivò a definire, nel 1924, la resurrezione del Cristo di Piero della Francesca “la più bella pittura del mondo”. Di quest’opera, eseguita tra il 1463 e 1468, è conservata nel Museo Civico di Sansepolcro, dove il pittore e matematico italiano, è nato e morto (1416/1492). Austen Henry Layard, diplomatico e critico d’arte britannico del 1800, dice che il Cristo raffigurato è “dotato di una maestà terrificante e non terrena nel contegno, nei grandi occhi fissi nel vuoto e nei tratti, malgrado ciò, distesi”.
La figura del Risorto è ben eretta, con un piede appoggiato sul bordo del sarcofago, per sottolineare l’uscita dalla tomba, dalla morte alla vita. Solenne e ieratico, mostra il suo corpo fisicamente perfetto, non più martoriato, ma con i segni dei chiodi e del costato, mentre regge il vessillo crociato, emblema del suo trionfo. Gesù è al centro della composizione e divide in due parti il paesaggio a lui retrostante, a sinistra invernale e morente e, a destra rigoglioso ed estivo. La linea dell’orizzonte, nel cielo sfumato come durante l’alba, mette in risalto le spalle e la testa di Gesù, con la sua inespressività, segno di forza, contro la discordanza dei sentimenti. Quattro soldati romani dormono ai piedi del sarcofago, segno di contrapposizione tra il sonno, debolezza umana e terrena, e la veglia della divinità che sempre vigila. Tutti i personaggi sono incatenati da una luce chiara, diurna e diffusa, dove ogni movimento è eliminato perché l’immobilità, per l’autore, è segno di immutabilità e dunque di perfezione. Il colore è il mezzo che permette alla luce di formare i volumi e, l’alternanza cromatica, la ritroviamo sapientemente utilizzata, come in tutte le sue opere. Qui tutto è sottoposto a rispondenze e a inversioni molto studiate. Anche il chiaroscuro non risponde alle regole della tradizione pittorica conosciuta, ma le ombre diventano zone di colore, che per la loro posizione, riflettono una quantità minima di luce che ne accentua la maestosità e la sacralità della scena.
Avendo saputo della resurrezione, gli apostoli Pietro e Giovanni corsero veloci verso il sepolcro quella stessa mattina. Eugene Burnand (1850/1921), noto pittore protestante svizzero, coglie l’importanza di questo momento e lo traduce in un’opera meravigliosa del 1898, ora a Parigi nel museo d’Orsay. Qui il giovane Giovanni con la sua tunica bianca simbolo della resurrezione e un maturo Pietro, dal volto segnato da rughe profonde, corrono verso la stessa direzione: il sepolcro. Gli apostoli appaiono come due persone semplici, che non rivestono alcun segno di gloria e insieme vanno verso la verità. Sfidando le consuete tradizioni, l’autore ha posto la tomba fuori dai limiti del quadro, mentre lontano si intravedono appena i resti delle tre croci. Sono due gli elementi determinanti: l’aria e la luce.
L’aria scompiglia i capelli di Giovanni, che corre precedendo di poco Pietro, che con la mano destra quasi trattiene il mantello, anche lui con i capelli mossi dall’aria fresca del mattino. Le mani giunte di Giovanni, la mano sul cuore di Pietro e i loro volti così espressivi, descrivono tutta l’ansia, la speranza nel miracolo, la possibile delusione. L’angoscia del probabile fallimento, il desiderio di rivederlo, tutto il tumulto di emozioni è mirabilmente espresso in questo capolavoro. É la luce dell’alba dorata che accompagna gli apostoli nella corsa verso la meta e si riflette nelle pupille dei loro occhi.
Ammirare un capolavoro ci lascia spesso senza parole, così come con poche parole non si può esprimere la grandezza di un genio come Michelangelo Buonarroti. Anche a lui fu commissionato un Cristo redentore da Metello Vari, da posizionare nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma. L’opera, alta più di due metri, fu iniziata dall’artista con grande foga elaborativa, ma mentre scolpiva il viso, emerse una venatura scura nel marmo che ne deturpava il volto. Michelangelo lasciò di lavorare questo blocco che, probabilmente, fu finito molti anni dopo il suo ritrovamento, da un giovanissimo Bernini e, nel 1519/20, si dedicò ad una nuova versione.
Anche questa statua risultò poco rispondente all’idea del maestro, che si offrì di farne una terza. I committenti però si “accontentarono” delle prime due. La seconda statua fu quindi posta nella basilica il 27 Dicembre 1521. Il Cristo ben eretto in piedi, modellato come una statua greca, si appoggia con entrambe le mani ad una grande croce e mantiene alcuni strumenti della sua Passione. Volge lo sguardo dalla parte opposta e torce morbidamente il torace, mentre la gamba destra avanza per una postura più stabile. Anatomicamente perfetto, dopo il concilio di Trento però, la nudità del corpo fu coperta da un drappeggio in bronzo dorato. L’intera figura mostra quell’equilibrio e quella solennità rinascimentale degno di quel corpo glorioso, trionfante che maestosamente volge lo sguardo dall’altra parte della croce, verso l’infinito, verso l’eterno, verso la resurrezione di tutta l’umanità, da sempre oggetto della misericordia di Dio.
Paola Carmen Salamino
Immagini
- Paola Carmen Salamino