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C. Miglietta, La Misericordia di Dio

Percorso biblico per l’Anno Santo della Misericordia, con presentazione di S. E. Mons. Guido Fiandino, Gribaudi, Milano

Perché scrivere un libro sulla Misericordia di Dio?

Perché la misericordia di Dio è il cuore della Fede cristiana. “Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi”, ha scritto infatti Papa Francesco.

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Quando Dio si rivela a Mosè, si manifesta come “Il Signore, Dio misericordioso e pietoso” (Es 34,6-7; cfr 3,14; 33,19).  La parola ebraica che meglio designa la misericordia è rehamin, che esprime le viscere, che per i semiti sono la sede delle emozioni, il nostro “cuore”: è una forma plurale di réhèm, il seno materno, l’utero femminile. Dio ci ama come una tenera Mamma, visceralmente, come il più appassionato degli innamorati: siamo la sua gioia (Is 62,5)!

È urgente che passiamo dalla concezione di un Dio Giudice inflessibile a quella di un Padre Misericordioso e Tenero. Dobbiamo uscire da quella “«bestemmia» che è la teologia della soddisfazione”, come dice Enzo Bianchi, secondo cui il primordiale peccato dell’uomo, essendo offesa a Dio infinito, poteva essere espiato solo da un sacrificio infinito: ecco quindi la morte in croce del Figlio, nella quale Dio è finalmente placato da una vittima infinita. Il Dio giudice terribile e sanguinario che viene presentato in questa visione teologica non è il  Dio “Padre” (Mt 6,9), anzi, “Papalino, “Papi” (Rm 8,15), rivelatoci da Gesù, il Dio che “prova più gioia… per un peccatore convertito, che per novantanove giusti” (Lc 15,7), il “Dio Amore” (1 Gv 4,8).

Dio crea l’uomo solo per amore, per avere, come dice la Bibbia, una Fidanzata, una Sposa. Ma l’uomo, essendo “altro” da Dio, che è infinito ed eterno, è creatura, finita e mortale. Perciò, nel momento stesso in cui Dio fa l’uomo, pensa all’Incarnazione del Figlio, per la quale egli stesso si farà finito, per prendere su di sé il limite creaturale e trasfigurarlo nell’infinito divino (Gv 1). La croce non è il perfido strumento di un Dio vendicativo, ma la somma rivelazione dell’amore di un Dio che prende su di sé ogni sofferenza, ogni malattia, ogni morte, per divinizzare tutto il creato. Il sangue del Figlio non è pagamento di un debito, ma azione di liberazione di Dio verso gli uomini.

La Misericordia è davvero per tutti o solo per quelli che si convertono?

Per gli ebrei, il sadiq, il “giusto”, è colui che ha relazioni armoniose con Dio e con i fratelli, che vive rapporti di cordialità con tutti. La sedaqah, la “giustizia”, è vivere relazioni profonde. Quando diciamo che “Dio è giusto”, non intendiamo in senso occidentale che Dio premia i buoni e castiga i cattivi, ma che Dio entra in profonda relazione con tutti. Così quando affermiamo che “Dio ci giustifica” non intendiamo che ci rende “giusti”, ma che entra in comunione amorosa con noi. E dire che “Cristo è la nostra giustizia” non significa vedere in lui il Giudice supremo, ma colui che ci mette in relazione con il Padre.

La misericordia di Dio è così sconvolgente che non è riservata ai buoni, ma è per tutti gli uomini, indipendentemente dalle loro virtù e dai loro meriti. Siamo di fronte ad un’enormità giudiziaria: l’assoluzione del reo (Rm 5,6-8). Dice Gesù: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,13); e addirittura: “Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12,47; 6,39).

Ma se Dio è così misericordioso con tutti, perché la Chiesa parla di Purgatorio e di Inferno?

Molti oggi vedono il purgatorio come una sorta di “tempo supplementare” che Dio concede dopo la morte a quanti lo hanno rifiutato in vita, per dare loro un’ulteriore possibilità di conversione. Ma che dire dell’inferno? La dottrina, sostenuta da molti Padri, dell’“apocatastasi”, o “ristabilimento” o “reintegrazione”, che trova il suo fondamento biblico in quei testi che proclamano che, alla fine dei tempi, “tutto sarà stato sottomesso al Figlio…, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,27-28; cfr Col 1,19-20), affermava che l’inferno è una realtà temporanea, e alla fine vi sarà riconciliazione per tutti, compresi i demoni. Tale dottrina fu però condannata da vari Concili. Secondo la Chiesa esiste quindi la possibilità teorica che l’uomo dica un “no” permanente a Dio e che quindi, allontanandosi per sempre da Lui, fonte di gioia e di vita, si trovi in quella realtà di infelicità e di morte che noi chiamiamo “inferno”. Ma praticamente è possibile che l’uomo rifiuti definitivamente un Dio tanto amabile, tanto affascinante? Da sempre, nella Chiesa, si trovano due linee di risposte. Da una parte ci sono i “giustizialisti”, che sostengono che l’inferno è pieno dei tanti malvagi e violenti che infestano la terra. Dall’altra parte i cosiddetti “misericordiosi”, che affermano che sì l’inferno esiste, ma che probabilmente è vuoto, perché è davvero difficile che l’uomo rifiuti Dio con piena avvertenza e deliberato consenso: spesso chi si oppone a Dio lo fa perché di lui ha avuto una visione distorta o una cattiva testimonianza da parte dei credenti, e quindi la sua responsabilità personale è limitata (Lc 23,34).

Che senso ha oggi parlare di “peccato”?

In latino peccatum indica un’infrazione a una norma comunitaria che merita una penitenza, una punizione da parte di un’autorità (il sovrano, il magistrato, i genitori…). Ma in greco la parola è amartìa, che significa essenzialmente “mancare il bersaglio”. Anche in ebraico la parola che di solito esprime il peccato è chatàʼ, che significa “non raggiungere un obiettivo”, “sbagliare strada”. In Gd 20,16 chatàʼ è usato per descrivere i frombolieri beniaminiti che con le loro fionde non mancavano neanche un bersaglio sottile come un capello. Il vero significato biblico del peccato, quindi, non è la trasgressione di un precetto, ma è il non raggiungere il bersaglio, lo scopo delle nostre azioni, cioè la pienezza della nostra vita. Dio ci dà i comandamenti non per metterci alla prova, ma per indicarci qual è la nostra felicità. È questo che viene evidenziato con chiarezza nel racconto della prima trasgressione: se gli uomini vorranno “mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male” (Gen 2,17), cioè decidere loro ciò che ritengono “buono, gradito e desiderabile” (Gen 3,6), andranno verso la sofferenza e la morte. Se invece si affidano a Dio, avranno la vita. Il peccato è credere che i nostri progetti, le nostre scelte, possono essere migliori di quelle che Dio Padre, che ci ama follemente, ha previsto per noi.  La cosiddetta “teologia delle due vie” fin dal libro del Deuteronomio (Dt 28; 30) ci ricorda che Dio è la felicità, è la gioia, la pienezza, la vita: stare sulla via di Dio significa vivere la nostra realizzazione e la nostra pace; allontanarsi da lui significa invece avviarsi verso cammini di tristezza, di angoscia, di vuoto, di morte. Quando pecco non “offendo” Dio, ma faccio un danno a me stesso.

Che cosa significa “convertirsi”?

In ebraico la parola teshuvàh, “conversione”, deriva dal verbo shùb, che significa “tornare sui propri passi”: indica un cambiamento radicale, un’“inversione ad U” della propria vita. In greco “conversione” è metànoia, che deriva da mèta, “cambiare”, e noùs, il pensiero, la mentalità: significa quindi cambiare la testa, il modo di pensare. Convertirsi è tornare alla strada della propria felicità e realizzazione. Ma non è volgersi ad una nuova etica, bensì ad una Persona: significa aderire a Gesù, farsi suoi discepoli, suoi amici, suoi intimi. “Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15): è Gesù la Gioiosa notizia, la nostra felicità (Mc 1,1).

Dio perdona sempre?

Nel Simbolo apostolico proclamiamo: “Credo nella remissione dei peccati”. “Per-donare” è il verbo “donare” al superlativo. Poiché Dio è Amore, è dono gratuito, la massima espressione di Dio è il perdono (Sir 2,18). La sua capacità di perdonare ci manifesta quanto il Dio biblico sia straordinario, meraviglioso, sorprendente. Dobbiamo rottamare le false immagini di Dio che ci portiamo dentro, spesso mutuate da speculazioni filosofiche, per aderire alla stupefacente novità del Dio della Bibbia.

Innanzitutto il Dio che Gesù ci rivela non è giusto: secondo il nostro concetto di giustizia, Dio infatti dovrebbe punire i peccatori: Dio invece mai castiga, ma sempre perdona, perché l’Amore “tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13,7).

Dio poi non solo perdona, ma dimentica le nostre colpe (Ger 31,34; Is 43,25): la Scrittura dice che i nostri peccati vengono “gettati in fondo al mare” (Mi 7,19), che saranno “dissipati come nube e come nuvola” (Is 44,22), che diventeranno “bianchi come la neve e come la lana” (Is 1,18). Liberiamoci quindi da una visione pagana di un Dio che alla fine della vita ci chiederà conto delle nostre colpe: egli infatti, ci dice la Bibbia, le dimentica completamente! Egli ci vedrà tutti “santi e immacolati” (Ef 1,4)! La parabola che racconta che coloro che hanno lavorato un’ora sola nella vigna del Signore hanno la stessa ricompensa di quelli che vi hanno faticato dodici ore (Mt 20,1-12), afferma che in Paradiso non ci sarà quindi meritocrazia: sarà una festa senza fine per tutti, senza distinzioni! La conclusione del brano sintetizza la logica di misericordia di Dio: “Così gli ultimi saranno i primi, e i primi ultimi” (Mt 20,16). Dio ci vuole tutti primi: il suo amore immenso non sopporta che qualcuno sia in seconda fila, che si senta meno realizzato, che abbia meno felicità, che rimpianga di non essere stato migliore.

Colpisce poi come Dio nella Scrittura non pretenda mai che l’uomo gli chieda perdono: chiede sì la conversione, cioè che l’uomo torni sulla via della propria realizzazione e felicità, ma mai che ci si scusi con lui. Il suo amore è tale che non si sente neanche offeso dai nostri peccati, come un padre o una madre che mai si sentono oltraggiati dagli sbagli dei figli, o un nonno dalle marechelle del nipotino, ma che piuttosto soffrono perché il figlio o il nipote hanno preso cattive strade, di infelicità e abiezione. Ecco perché, nella parabola del figlio prodigo, il Padre non vuole nemmeno sentire la tiritera di scuse che il figlio si è preparato, ma commosso subito esplode con lui nella gioia dell’abbraccio e ripristina totalmente e in sovrabbondanza la dignità che il figlio aveva perduto (Lc 15,11-32). Se Dio nella Bibbia non pretende mai che gli si chieda perdono, vuole però che sappiamo chiedere scusa ai fratelli, per riconciliarci con loro, come ogni Papà che anela che i figli vivano in pace tra di loro (Mt 6,10). La sofferenza di Dio, il suo dispiacere, è la nostra mancata beatitudine, e non l’affronto a lui arrecato. A tanto giunge la grandezza del suo Amore!

Che significa: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36)?

Il cristiano, inondato dalla Misericordia di Dio, è chiamato a traboccarne ai fratelli. Essere misericordiosi non è un imperativo etico, ma nasce dalla nostra chiamata all’imitatio Dei, a cercare di essere come Dio (Lc 6,36). Il cristiano dovrà essere davvero un alter Christus, un altro Gesù (1 Pt 2,21), riversando la divina Misericordia su tutti, soprattutto, come Gesù, sui poveri, gli scartati, gli oppressi. Gesù proclama: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7): ai misericordiosi, Gesù promette nient’altro che quello che già vivono: la misericordia. La misericordia è pienezza di Dio e degli umani. I misericordiosi vivono già della vita stessa di Dio.

Nel suo libro sottolinea che la Misericordia di Dio si estende a tutto il Creato. Quindi anche agli animali, alle piante, alle cose?

Tutti sempre contempliamo la meravigliosa misericordia di Dio per tutti gli uomini, ma spesso dimentichiamo che essa si estende a tutte le creature, a tutto il mondo animale, vegetale e minerale. La nostra visione, in campo religioso, spesso è antropocentrica, ma i testi della Bibbia, pur rimarcando la speciale posizione dell’uomo nella creazione, hanno una dimensione cosmologica.

La creazione del mondo intero è la prima opera di misericordia di Dio. Scrive Papa Francesco: “La crea­zione appartiene all’ordine dell’amore… Ogni creatu­ra è oggetto della tenerezza del Padre, che le asse­gna un posto nel mondo. Perfino l’effimera vita dell’essere più insignificante è oggetto del suo amore, e in quei pochi secondi di esistenza, egli lo circonda con il suo affetto” (Laudato si’, n. 77).

Dio non solo ha creato il mondo per amore, ma continuamente lo fa sussistere tramite la sua rùah, il suo Spirito (Sl 104,29-30). La natura ha un valore in sé perché è il luogo della presenza dello Spirito di Dio, che “riempie l’universo” (Sap 12,1; 1,7). Lo Spirito è ubique diffusus, transfusus et circumfusus, come dicevano i Padri della Chiesa. “In ogni creatura abita il suo Spirito vivificante” (Papa Francesco, Laudato si’, n. 88). Una poesia orientale ben lo esprime: “Lo Spirito dorme nella pietra, sogna nel fiore, si sveglia nell’animale e sa di essere sveglio nell’essere umano”. Siamo di fronte non a un panteismo, ma a un “pan – en – teismo”, cioè alla presenza permanente dello Spirito in tutte le cose.

La Provvidenza di Dio per il creato si esplica anche nel fornire ogni giorno nutrimento a tutte le sue creature (Gb 38,39; Sl 136,25), come anche Gesù ci ricorda (Mt 6,26.28-29).

Sull’esempio di Dio, il credente sarà misericordioso verso tutta la creazione (Pr 12,10; Gl 1,19-20). Di Francesco d’Assisi, Tommaso da Celano scrive: “La sua carità si estendeva con cuore di fratello non solo agli uomini provati dal bisogno, ma anche agli animali senza favella, ai rettili, agli uccelli, a tutte le creature sensibili e insensibili”. Stupenda è la cosiddetta preghiera di Isacco il Siro: “Che cos’é la misericordia del cuore? È l’amore bruciante per la creazione tutta, per gli uomini, per gli uccelli, per gli animali, per i demoni e per ogni essere creato”.

Ma si può pensare a una salvezza per tutto il cosmo?

L’alleanza che Dio stipula con Noè si estende a tutti gli animali (Gen 9,8-11.16).  Il Salmista proclama: “Uomini e bestie tu salvi, Signore” (Sl 36,7). Isaia afferma che quando arriverà il Messia si avvererà la situazione paradisiaca profetizzata nella Genesi, in cui animali feroci e domestici vivranno in pace tra loro e con gli uomini (Is 11,6-8; cfr Mc 1,12-13). Sono solo modi per dire che il Messia porterà la pace cosmica, o possiamo leggere in questi brani anche una sorta di beatitudine finale per gli animali? È soprattutto Paolo che prospetta una redenzione per tutte le creature: “L’attesa impaziente (apokaradokìa) della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio…, e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,17-24).

Se l’incarnazione di Cristo compie il progetto creazionale di Dio, tutto il creato, quindi anche gli animali, le piante, le rocce, trovano in lui la redenzione: “Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà…: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,3-12). Talora per esprimere questo mistero si parla di “nuovi cieli e una terra nuova” (Ap 21,1). Il discorso è apertissimo. Ma parrebbe certo, sulla base delle Scritture, che tutto il creato, non solo l’umanità, e non solo il mondo animale, ma anche quello vegetale e minerale, siano raggiunti dalla salvezza che si compie in Cristo.

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