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Una chiesa testimone nell’amore e nella povertà

Letture: Am 7,12-15; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13

Il Vangelo odierno è la “Magna Charta” della chiesa se vuole restare fedele al suo mandato: è un testo che certamente risale a Gesù stesso, e che faceva parte del vademecum dei predicatori della comunità apostolica. Esso esprime esigenze di forte radicalità nella testimonianza del Regno, e richiama da vicino il contenuto del discorso delle Beatitudini (Lc 6,20-26; Mt 5,2-12), che Marco non cita ma che qui esemplifica. Le Beatitudini “sono una specie di autoritratto di Cristo, sono un invito alla sua sequela e alla comunione con lui” (Veritatis splendor, n. 16). Gesù è il modello delle Beatitudini, e alla sua chiesa altro non propone che l’imitazione della sua vita.

Gesù è profeta (Mc 6,4.15; 8,28) che non fa vita solitaria, come gli antichi profeti, come Amos nella prima Lettura (Am 7,12-15): egli vive in comunità, e per la vita comunitaria ha chiesto ai suoi l’abbandono di casa, famiglia, moglie (Mc 10,28-31). Egli invia a due a due i suoi discepoli non solo per dare una testimonianza valida secondo la legge giudaica (Dt 19,15), ma proprio per dare esempio di vita fraterna. Non siamo chiamati ad una fede privatistica, né ad una testimonianza individuale: i discepoli sono chiamati come comunità perché “stessero con lui, e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,14), inviati ad annunciare “la Parola della verità, il Vangelo della salvezza”, come afferma Paolo nella seconda Lettura (Ef 1,3-14).

Per questo nel Vangelo e negli Atti spesso vediamo presentate coppie “celebri” di discepoli, segno di una prassi di condivisione di vita e di annuncio: Pietro e Giovanni (Lc 22,8; Gv 20,3-10; At 3,1; 4,1), Giovanni e Andrea (Gv 1,35), Cleopa e l’altro discepolo (Lc 24,13.17), Barnaba e Paolo (At 11,30; 13,2; 14,14), Giuda e Sila (At 15,22), Barnaba e Marco (At 15,39), Paolo e Sila (At 15,40)… È la chiesa come tale che è inviata al mondo a predicare la conversione, a cacciare i demoni, a guarire gli infermi (Mc 6,13). Annunciatrice di Colui che è Amore (1 Gv 4,8), la chiesa dovrà innanzitutto esserne segno visibile: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Diamo al mondo questo segno? Ci riconoscono come Suoi dall’intensità d’amore che regna nella chiesa, dal nostro lavarci i piedi gli uni gli altri (Gv 13,14), dall’accoglierci, dal perdonarci, dal renderci vicendevole onore, dal vivere tra noi quella carità che “è paziente, è benigna…, non è invidiosa…, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non sia adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia…, che tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13,4-7)?

Oltre che alla vita comune nell’agape, la chiamata per la chiesa è ad una povertà radicale (Mc 6,8-11). L’essenza dello “stare con lui” (Mc 3,14) è essere poveri come lui (Lc 8,58): la fede è porre la nostra sicurezza solo di Dio, è affidarsi solo a lui, come gli uccelli del cielo e i gigli del campo (Mt 6,25-35), è vivere solo di lui. La povertà è vero e indispensabile sacramento, cioè segno efficace della fede in Dio. Senza povertà non c’è fede, se non a parole. La chiesa potrà veramente testimoniare Cristo al mondo solo quando potrà dire, come Pietro e Giovanni allo storpio al tempio: “Guarda verso di noi… Non possiedo nè oro nè argento, ma quello che ho te lo dò: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” (At 3,4-6): se i due Apostoli avessero avuto ricchezze, gli avrebbero fatto l’elemosina, non il miracolo… I discepoli non dovranno portare con sé neanche il pane (Mc 6,8): hanno infatti “con sé sulla barca il pane unico” (Mc 8,14), Gesù Cristo stesso! Al credente, Dio basta: la missione è testimoniare questo con la propria vita.

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