Storie di bambini che ci aiutano a capire…
Imparare dalla Saggezza dei Bambini: Riflessioni sulla Vita e la Morte Attraverso “Oscar e la Dama in Rosa”
Quanto si può imparare dai bambini consapevoli di essere ormai in una fase finale della propria vita, poiché questi danno un valore all’esistere anche se limitato nel tempo?
In questi anni abbiamo ritenuto necessario far conoscere il libro “Oscar e la Dama in Rosa” agli studenti dei corsi di laurea delle professioni sanitarie compresi quelli delle lauree magistrali. Perché?
Perché leggere e rileggere Oscar e la Dama in Rosa?
Perché, attraverso i dialoghi tra Oscar e la Nonna Rosa abbiamo la possibilità di riflettere su un argomento così difficile quale la malattia, il dolore e la morte di un bambino.
In questo libro vengono, infatti, affrontati temi che sono oggetto di riflessione di questo numero 9 di Laborcare Journal: la malattia inguaribile e la Cura del malato a partire proprio da quel “tempo che, fattosi breve” deve essere nutrito di significato, che solo attraverso lo “stare insieme” diventa il “tempo dei desideri”.
Sono le prime righe a sottolineare quanto, nelle ultime fasi della Vita, nulla viene dato per scontato, tutto viene rivalutato a partire da un “bisogno di spiritualità” che è stata oggetto di trattazione in Laborcare Journal n.8: “Mi chiamano testa d’uovo, dimostro sette anni, vivo all’ospedale a causa del cancro e non ti ho mai rivolto la parola perché non credo nemmeno che tu esista. Ma se ti scrivo una roba del genere, fa un brutto effetto e ti interesseresti meno a me. E io ho bisogno che ti interessi.”
In sostanza il libro “Oscar e la Dama in Rosa” che cos’è? È lo spiegare la naturalezza della vita nell’ospedalizzazione, nella malattia che ti porta alla fine della vita, in un modo estremamente medicalizzato teso sempre di più alla guarigione e che perde di vista la cura e che, soltanto attraverso il dialogo con Nonna Rosa, una volontaria, Oscar riesce a portare avanti.
Attraverso le parole di Oscar, Eric Emmanuel Schmitt sottolinea la naturalezza con cui i bambini portano su di sé i segni della malattia: egli stesso si definisce “testa d’uovo” (perché reso calvo dalla chemioterapia), conosce Peggy ” Blue” così chiamata perché malata di cuore o il compagno di scacchi ” Einstein” il cui appellativo deriva dalla conformazione del cranio, e così via. Non una stigmatizzazione bensì un portarsi addosso i segni della malattia e delle conseguenti terapie con estrema naturalezza… scherzandoci pure. Questo modo di vivere il corpo, nella narrazione degli adulti, viene sovente, omesso per dare più spazio alla “crisi del corpo”, “alla vergogna”… intimoriti dal fatto che il mutare dell’aspetto fisico possa diventare oggetto di curiosità o di stigmatizzazione.
Nei bambini la naturalità fa parte quasi, del gioco, cioè “io sono malato, mi trovo così con la testa d’uovo, non sembro un bambino.” Questo modo di vivere il proprio corpo solo un bambino lo poteva spiegare agli adulti.
Un altro elemento “difficile” che emerge dalla lettura del libro riguarda la difficoltà, da parte sia del personale sanitario che dei famigliari, ad accettare l’intensità di affetto e di amore che possono avere dei bambini anche piccoli per altre persone che hanno incontrato durante il loro percorso.
L’innamorarsi che noi releghiamo ad età più o meno adolescenziali/adulte è, invece, un sentimento che si desidera vivere anche “se si è bambini” ancor di più si è consapevoli che la propria vita sia sempre più breve.
Questo tema fa riflettere sulla capacità di soffrire per le preoccupazioni legate alle cure dell’altra persona amata così pure per l’amico o l’amica.
Talvolta incapaci a comprendere questi stati d’animo, “gli adulti” sentono bisogno di creare delle “difese” fatte di regole, procedure, che rischiano di ridurre la possibilità di favorire di quell’intimità affettiva e di complicità che si instaura tra coloro che vivono le stesse esperienze di malattia, un’intensità emotiva che va preservata.
E quanto il desiderio di riservatezza e di intimità anche tra adolescenti viene negato negli ospedali a quei malati che finiscono in quelle stanze le loro brevi vite.
Un libro, “Braccialetti rossi”, fa dei sentimenti l’elemento centrale della storia di un gruppo di bambini e adolescenti ricoverati in un ospedale che, nonostante i divieti, diventano un gruppo complice e solidale tanto da “contaminare”, in senso positivo non solo rigidi medici ma gli infermieri e gli stessi genitori.
Mamma e papà, spettatori ma anche attori di una tragedia che li sta travolgendo, spesso si sentono incapaci non solo di accettare che il proprio figlio muoia ma, in certi casi, impossibilitati a relazionarsi con il proprio figlio.
Oscar, infatti, apostrofa i suoi ricordando loro che lui è “lo stesso figlio che voi amavate quando stava bene e ora che sto male e avrò poco tempo davanti voi dovete aver cura di me ed avere relazione con me perché sono come un orsetto un po’ malconcio … il bisogno di sentirli accanto non può essere “risolto” con un ennesimo “giocattolo nuovo”.
E Oscar vuole anche aiutare il suo dottore- e tutti i curanti- che si avvicinano ai loro pazienti in fin di vita con un’aria sempre più triste, quasi sentendosi colpevoli per non averli potuto guarire, dicendogli:” lei deve rilassarsi. Non è colpa sua se è costretto ad annunciare brutte notizie alle persone, malattie dai nomi latini e guarigioni impossibili. Lei non è Dio, non è lei a comandare alla natura. Lei è solo un riparatore… deve diminuire la pressione e non darsi troppa importanza, altrimenti non potrà continuare a lungo con questo mestiere”.
Sarà proprio Oscar ad aiutare non solo medici e infermieri ma soprattutto i genitori e Nonna Rosa ad accettare l’idea che morirà fino al punto di proteggerli nel momento della sua morte: ”Caro Dio (…) Il ragazzino è morto. Si è spento stamattina, durante la mezz’ora con cui i suoi genitori e io siamo andati a prendere un caffè. Lo ha fatto senza di noi. Penso che abbia aspettato quel momento per risparmiarci. Come se volesse evitarci la violenza di vederlo scomparire. Era lui, in realtà, a vegliare su di noi…”.
Gianluca Favero
Mariella Orsi
Fonte dell’articolo
- Editoriale di Laborcare Journal n.9