“Siwezi”. Quando, in Africa, “non posso” diventa altro

Su “Popoli e Missione”, la parola “siwezi”, che esprime l’impossibilità. Scopriremo come in Africa il “non posso” dia vita ad altro

“Siwezi”, in swahili, significa «non posso». Ma le coordinate geografiche danno sfumature diverse alle parole. Da noi, per esempio, è un limite. Vuoi essere invincibile, efficiente, sempre al top, ma a volte non ci arrivi (economicamente, culturalmente, ecc.).

È, inoltre, il paradosso di una società che corre «a più non posso». Vai di fretta per fare più cose, ma poi la risposta che ti ritrovi a dare più spesso (ai figli, a un compagno, agli amici) è: «non posso».

In Africa, le priorità cambiano, e anche le possibilità e le prospettive.

Per don Nicholas Kirimo, sacerdote keniano del Cottolengo, “siwezi” è la «rinuncia in nome di un valore più forte, pur avendo la motivazione giusta». Ci sono infatti parole che, anche se sono le stesse, a seconda delle culture e delle opportunità, assumono accezioni e traiettorie opposte.

In Kenya, per esempio, dove la sanità è a pagamento, «è unʼespressione pronunciata con una rassegnazione e unʼaccettazione che in altre terre sarebbero impensabili».

Così racconta da Cagliari Paolo Zanolla, 35 anni, nel 2018 medico in missione a Chaaria, al Cottolengo Mission Hospital dove Prince Winner, a soli due mesi, «piano piano si è spento, dopo che suo padre aveva detto: “Non posso andare a Nairobi per far operare mio figlio. Fate quello che potete”».

Ed ecco quel pesante “senso di impotenza” che tocca in molti: dal volontario, per la scarsità di mezzi e strutture, ai missionari che per anni devono fare i conti con la realtà. Dalle onlus e ong che si districano tra progetti, sistema e risorse, ai giovani come Antony Puppo, di ritorno da una breve esperienza in Messico. Accanto alla sua «soddisfazione di aver fatto qualcosa di concreto», un cruccio:

«Vorresti cambiare il mondo, ma è quasi impossibile. Abbiamo costruito due case, sì. E gli altri 20 milioni di abitanti della periferia?».

Domande che resteranno senza risposta o alle quali gli africani replicano “siwezi”, «accettando umilmente che siamo piccoli e non abbiamo potere su tutto», dice Paolo Zanolla. Una sfida per lʼAfrica, per don Nicholas: lottare di più (“Yes, wen can” e “Tutto posso in colui che mi dà la forza”).

Una sfida per noi: rivedere le ragioni del nostro “siwezi”.

E, intanto, come dice Claudia Favaro, del Centro Missionario diocesano di Torino, «il copertone di una bicicletta ci ricorda che un bambino, di fronte a questo modo di dire, pensa così: “Non posso avere dei giocattoli, ma non rinuncio al diritto al gioco, sviluppo la mia creatività, sto con i miei amici, vivo, sono felice”».

(Loredana Brigante – Popoli e Missione, maggio 2019)

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  • Foto di Gherardo Gambelli
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