Vita di clausura in un luogo di martirio
Le Clarisse nel primo monastero di vita contemplativa d’Albania, dove la misericordia di Dio è stata più forte della violenza di un regime
di Cecilia Marazzi e Nicoletta Erle
Un lungo corridoio in penombra. Ventitré porte verdi in legno si aprono su altrettante celle, distinguibili solo da un numero nero progressivo posto sopra di esse. Una stuoia stesa per terra in alcune, mentre le altre sono completamente spoglie.
L’intonaco scrostato si accumula sugli angoli del pavimento all’interno. La luce entra da una finestrella in alto proiettando il disegno delle inferriate sulle pareti fredde e strette.
Una porta si apre nel buio di una stanza ampia in fondo al corridoio. Dalle tre aperture rettangolari poste in alto sulla parete a sinistra, filtra la poca luce necessaria a intravedere due piccole scrivanie: una con la macchina da scrivere, l’altra con un apparecchio per registrare e trasmettere all’esterno.
Sulla destra un palo di legno con dei lacci per affrancare mani e piedi, avvolto da un filo spinato metallico, collegato a un generatore di corrente elettrica. La stanza è ancora impregnata di un odore pungente: era la stanza delle torture.
L’altra ala dell’edificio, ristrutturata con luminose forme moderne, custodisce un diverso genere di celle: le stanze delle Sorelle Povere di Santa Chiara (Clarisse), che dal 2003 abitano proprio accanto alle celle di martirio.
Questo edificio era sorto come convento dei Frati Minori Francescani nel XIX secolo, ma fu espropriato dal regime comunista di Enver Hoxha che ebbe inizio nel 1945. Nei primi anni del regime, l’edificio divenne sede della Sigurimi (la polizia segreta del regime), in cui venivano rinchiusi e torturati i prigionieri politici in attesa di processo.
Pochi anni dopo la caduta del regime, gli ambienti dell’ex carcere sono diventati un museo-memoriale, preservati intatti in ricordo degli innumerevoli religiosi e fedeli laici che qui sono stati uccisi.
Il resto dell’edificio è stato riconvertito alla sua funzione originaria, divenendo il primo monastero di vita contemplativa dell’Albania.
Oggi sette clarisse (quattro albanesi e tre italiane) condividono la vita di clausura in questo luogo di martirio, mantenendo viva la memoria e facendosi portavoce di una storia grondante di sangue: la persecuzione avvenuta tra il 1944 e il 1991 sotto la dittatura comunista e atea.
“La Chiesa cattolica albanese ha qualcosa da raccontare e noi siamo qui proprio per questo: chi viene qui non può non sapere”, ha affermato la Madre Superiora.
“Tutto ci ha impedito il regime, tranne parlare con Dio”, così una delle suore riassume la sua esperienza di vita e quella della popolazione albanese.
Il regime inizialmente sequestrò i beni della Chiesa e del popolo, eliminò gli intellettuali e gli oppositori politici, fino ad istituire l’ateismo di stato nel 1967. I luoghi di culto di ogni religione furono distrutti o riconvertiti ad altri usi.
Fu vietato possedere simboli religiosi e persino nominare il nome di Dio. Eppure, oltre vent’anni di persecuzioni non sono riuscite a cancellare la fede, nei cattolici, negli ortodossi, né nei musulmani.
Sr. Lula, che quegli anni li ha vissuti, ricorda che, quando era piccola, a fine giornata, chiudevano tutte le porte e le finestre, slegavano i cani e uno restava di guardia, così che il resto della famiglia potesse recitare insieme il rosario.
“I miei santi, i miei nonni non hanno rischiato né per sfamarsi né per vestirsi, ma per insegnare il segno della croce sì”, afferma la suora.
Era pericoloso, se un bambino a scuola dimostrava di conoscere il segno della croce, l’intera famiglia rischiava il carcere o la deportazione.
Eppure, i nonni battezzavano in casa i nipoti, i genitori i figli, rafforzati nella fede dalla testimonianza dei martiri.
La trasmissione di gesti, valori e racconti tra le generazioni ha consentito la sopravvivenza della Chiesa nel nascondimento, perché in ogni momento e in ogni luogo, nessuno può impedire il dialogo interiore con Dio.
E così, come un seme nell’oscurità di un terreno fecondo, i genitori e i nonni hanno saputo far coltivare il desiderio e il sogno della Chiesa, di cui avevano memoria, e che ha potuto realizzarsi e sbocciare dopo la caduta del regime.
Come mai queste donne hanno scelto una vita di clausura dopo la caduta del regime?
Questa domanda può nascere spontanea. Ma per le suore, la prospettiva è diversa: “la vera libertà è stare con Dio, è dentro di noi”.
I semi di amore e di fede gettati in un tale periodo sono germogliati e cresciuti fino a concretizzarsi nella decisione di restituirli al Signore.
“Sono una donna fortunata perché adesso posso sempre urlare il nome di Dio”, dice Sr. Lula.
La scelta della vita claustrale non è vissuta né come costrizione, né come privazione di qualcosa, perché, “La libertà sta dove c’è l’amore. L’uomo è veramente libero quando si sente amato e quando ama”, dice Sr. Patrizia.
“Per pregare loro chiudevano le porte, non perché non erano liberi, ma per custodire l’amore”.
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- Padre Carlo Salvadori