R come Ricordare

Che lingua “parlano” i missionari? Il loro è un alfabeto di misericordia, con lettere che ridanno vita alle parole e generano opere

“Padiri, unakumbuka ile siku wakati ulipofika hapa Baraka?”.
(Padre, ti ricordi quel giorno quando sei arrivato a Baraka?)”. Così mi parlava Mwenebatu, professore al Liceo e incaricato dei giovani in questa parrocchia del Sud Kivu, in Congo RDC.

Gli risposi che i miei ricordi non erano molto chiari. Sicuramente loro ne avevano di più, perché quando arriva uno straniero, un mgeni, subito viene squadrato da capo a piedi.

E continuò dicendo che mi avevano visto un po’ impacciato (direi imbranato), sia nel salutare la gente che nel parlare.

Ero sbarcato in un altro mondo e non sapevo come comportarmi. Piano piano, ascoltandolo, qualche ricordo comincia a fare capolino. Certo, avevo studiato per 3 mesi il kiswahili a Bukavu, nella Casa dei Missionari, ma ora dovevo metterlo in pratica.

Insomma, il “jambo”(ciao) e “l’habari gani?” (come stai?) erano chiari. Il resto dovevo aggiungerlo giorno dopo giorno. Già vedevo gli occhi dei bambini che mi guardavano e ridevano di pieno gusto, quasi commiserandomi, io che venivo dalla Bulaya (Europa).

Però, giorno dopo giorno, hanno avuto tanta pazienza, insieme agli adulti e penso di poter dire di essermela cavata.

Anche le prime omelie in chiesa, me le scrivevo e le leggevo. Poi piano piano, ho cominciato ad essere più “à l’aise” (a mio agio) e mi veniva facile parlare con loro. Ma c’è sempre un inizio in tutte le cose e non bisogna scoraggiarsi.

Poi, il primo viaggio in battellino, ah questo me lo ricordo, mi rimane dentro.
Non era quello nuovo, ma aveva già fatto tanti viaggi e non era semplice starci dentro insieme alla gente che chiedeva un passaggio insieme ai bagagli…

Bisognava stare tranquilli, anche se le onde si divertivano a mettere a dura prova il nostro stomaco. Quando poi arrivavo a riva, mettevo i piedi bene nella sabbia per essere sicuro di essere su terra solida. Ma la cosa più bella era il panorama che si gustava delle coste, spiagge e anche dei coccodrilli e ippopotami che ci guardavano con interesse…

Un’altra cosa che ricordo con precisione è stato quel giorno in cui venne il presidente della federazione locale di calcio per cercare
un fischietto, perché lo avevano perso. Era domenica e c’era la partita.

Io gli dissi che lo avevo (essendo arbitro) e che, se voleva, potevo anche arbitrare la partita. Detto, fatto.
Mi sono cambiato, ho messo la divisa e sono entrato nello stadio, attaccato alla chiesa parrocchiale.

Tutti erano meravigliati di questa apparizione. Ma ci volle poco a far capire ai giocatori, come si dice oggi, che la musica era cambiata. Forse, avevano un po’ di paura di me. Fatto sta che la partita filò liscia e alla fine tutti vennero a farmi i complimenti.

Insomma, da quel giorno, cominciò anche la mia carriera di arbitro fino a diventare formatore regionale degli arbitri.

Ora, i ricordi arrivano a frotte. Non so più quale seguire. Gli incontri con la gente nelle loro case, nei villaggi mi faceva molto pensare. Vederli faticare sotto il sole per strappare dalla terra del terreno per coltivare la manioca e altre verdure, oppure la
sera mentre andavano a pescare…o il non poter reagire alle ingiustizie delle varie autorità che avrebbero
dovuto aiutarli…

Tutto ciò mi poneva delle domande a cui non sapevo dare delle risposte. Però, insieme agli altri confratelli, cercavamo di incoraggiarli, di spronarli a non lasciarsi andare, a chiedere anche l’aiuto di Dio per lottare per un mondo giusto.

Noi eravamo venuti per dare loro una mano e, se necessario, anche la vita, come i missionari uccisi nel 1964 e sepolti dietro l’altare della chiesa parrocchiale.

Le cose non cambiano in un attimo. Ci vuole pazienza e costanza. Noi eravamo là e il loro coraggio ci dava forza, ci faceva capire che insieme potevamo sognare per qualcosa di bello, come quel sole che ogni sera scendeva lentamente per addormentarsi tra le acque del lago Tanganika.

Fonte

  • p. Oliviero Ferro

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