Q come Qualità

Che lingua “parlano” i missionari? Il loro è un alfabeto di misericordia, con lettere che ridanno vita alle parole e generano opere

“Unaishi namna gani?(come vivi?”, chiesi un giorno a un vecchietto, seduto ai piedi di un mango, mentre guardava le capre che pascolavano intorno a lui, vicino alla spiaggia del lago Tanganika in Congo RDC.

E lui: “Padiri, najidebrouiller kadiri naweza. Hapa mu Congo wanasema kama inafaa kuishi article 15:
kujidebrouiller” ( padre, mi arrangio come posso. Qui in Congo dicono che bisogna vivere l’articolo 15: arrangiarsi”).

E così mi raccontò un po’ della sua vita e da lì capii che la qualità, il modo di vivere è importante per dare significato ai nostri giorni.

Quando era piccolo, seguiva il padre nella piroga per andare a pescare. Ma al ritorno sulla spiaggia, al mattino, c’erano sempre i doganieri, i soldati e altri loschi e affamati individui che chiedevano la loro parte. Erano loro che comandavano e non si poteva rifiutare.

Swedi, così era il suo nome, chiedeva spiegazioni al papà, ma lui allargava le braccia, come per dire “nitafanya nini?” (cosa potrò fare?).

Siamo poveri, indifesi, nessuno pensa a noi e si metteva a piangere.

Ma un giorno venne un uomo dalla barba bianca e si mise a parlare con i pescatori. Tutti si radunarono intorno a lui per ascoltarlo. Qualche spia dei doganieri si era mescolata a loro.

Il Missionario se ne era accorto, ma continuò a parlare. Diceva che bisogna lottare per i propri diritti, per migliorare la qualità della vita. In parole povere, bisognava smettere di abbassare la testa di fronte alle ingiustizie, che bisognava essere uniti
e allora qualcosa sarebbe cambiato.

Tutti facevano cenno di sì con la testa, ma il padre alzò la mano e disse:” Ma se i soldati vengono a bastonarci, come facciamo?”.

E lui rispose che sarebbe stato vicino a loro.

Si diedero appuntamento fra qualche giorno alla missione per mettere in pratica tutto quello che era stato detto. In un pomeriggio, vennero una decina e il missionario parlò di cooperativa di pesca, di mettersi insieme per comperare le reti, dividersi il pesce e venderlo e così cominciare ad avere un piccolo capitale, in modo che il gruppo potesse diventare forte.

Decisero di fare così e per un po’ tutto andò per il verso giusto. Ma la gelosia era una cosa che se anche la cacci via, ritorna in un altro modo. Qualcuno cominciò a chiedersi perché doveva lavorare anche per gli altri, perché doveva faticare il doppio e poi cosa
ci guadagnava.

E’ vero che per un po’ erano stati lasciati in pace dai soldati e dai doganieri che avevano paura del missionario. Ma l’armonia tra i pescatori cominciò a disgregarsi.

Finchè una notte qualcuno andò a tagliare un pezzo di reti e si mise per conto proprio. Al mattino gli altri fecero la brutta scoperta e la cooperativa andò in fallimento per la più grande gioia dei suoi nemici e ritornarono la paura e le ingiustizie in mezzo ai pescatori.

Swedi, mentre mi raccontava queste cose, mi diceva che suo padre era uno di quelli che aveva creduto a questa novità e ci metteva tutto l’impegno, ma alla fine era stato lasciato solo. Il missionario era stato minacciato e alla fine cacciato via, come perturbatore dell’ordine pubblico.

E così, anno dopo anno, il mio amico riprese a pescare, da solo. Intanto papà era morto, ma bisognava portare avanti la famiglia.

Ogni tanto ricordava agli altri quell’avventura, ma gli dicevano: “Ndio, ilikuwa kitu cha kufanya. Lakini tuko wamaskini na hatuwezi kufanya umoja” (sì, era una bella cosa. Ma siamo poveri e non riusciamo a fare unità)”.

Un brutto giorno, gli sequestrarono la piroga, perché non aveva dato il pesce richiesto ai doganieri e ai soldati. E così dovette fare il pastore di qualche capra che un suo zio per pietà gli aveva dato.

E sotto il mango, ogni tanto, sognava a un mondo migliore, dove la qualità della vita e dello stare insieme sarebbe stato più giusto.

Fonte

  • P. Oliviero Ferro

Immagine

SEC 2024-2025
Potrebbe piacerti anche