Lunedì pomeriggio torrido…

La creazione di valore è qualcosa di molto faticoso; significa scegliere strade poco battute, agire e dare un senso diverso ad ogni azione intrapresa

Diventare infermiera per me ha avuto, in maniera per lo più inconsapevole, un impatto totalizzante sulla mia esperienza non solo professionale ma soprattutto individuale. Gli studi, le vicissitudini e gli episodi si incidono in maniera indelebile sul mio agire professionale e sulla mia attitudine personale.

Non ritengo di aver mai avuto una spinta vocazionale verso questa professione; e non desidero chiamarla professione, mestiere, lavoro e meno che mai scienza. La chiamerò Arte, come l’ha definita colei che l’ha fondata ,Florence Nightingale, usignolo fiorentino di nascita ma inglese di passaporto, che davvero in terra di Crimea nel lontanissimo diciannovesimo secolo avviò un’opera d’arte straordinaria, l’infermieristica.

Molti stimatissimi colleghi hanno esperito forse in maniera più profonda e diretta l’approccio con l’idea del prendersi cura. Io sono partita da motivazioni poco morali e molto prosaiche(!) ma un filo rosso ha sempre segnato il mio percorso ed è stato ed è tutt’ora la fame di umanità. Conoscere, incontrare e far emergere l’umanità in me come operatore ed accogliere l’umanità di coloro che loro malgrado debbono affidarsi alla mia cura.

All’inizio del corso di infermieristica mi aspettavo tante risposte a questa mia fame di umanità, la mia certezza all’inizio del corso era che, dato che ci saremmo preoccupati di assistere persone, il centro del nostro agire non poteva che essere scandagliare i fondali dell’umanità…..mi sono sentita invece affogare in un mare di tecnicismi che per motivi, così, di comprensione fra pari sono anche necessari , forniscono risposte scientificamente provate ma che si fermano ad una spiegazione razionale, non restituiscono niente non fanno emergere niente. Prima ancora della relazione si parla delle modalità/tecniche comunicative con le quali possiamo difenderci come operatori per non finire in burn out o peggio che mai al cospetto di un magistrato. Con fare sapiente, vagamente pedante e il gusto dell’ovvietà si parla di “sospensione del giudizio di valore”, la persona che abbiamo di fronte necessita di cure e noi la dobbiamo curare indipendentemente dalla sua provenienza, dal suo status, dal suo censo, dal colore della sua pelle, dalla forma dei suoi occhi, dalla fede religiosa… Principio validissimo e ovvio! Formazione continua? A pioggia! Risultati? Incomprensione, tensione e strumentalizzazione. Poco si parla di ascolto, l’ascolto attivo, quello vero; l’ascolto di una persona anziana che parte dal dopoguerra per raccontare episodi che hanno determinato nel presente la sua venuta in ospedale, della madre pakistana che nutre il proprio pudore chiedendo un luogo un po’ appartato per poter allattare la figlia neonata; l’esasperazione di un figlio ventenne che assiste alla passione della propria madre nella fase terminale di malattia oncologica; sfumature quasi impercettibili che danno spunto al modo migliore per potersi rapportare a ciascuna persona ci troviamo davanti; e modificare sensi che attribuiamo alle parole, contesti, accenti, toni, sensazioni. Caleidoscopi. Creare molteplicità di strutture simmetriche in una relazione che non ha niente di simmetrico.

La mia ancora di salvezza in questo mare in tempesta? Le Scienze Umane, la sociologia e l’antropologia hanno iniziato a dissetare la mia curiosità. La scoperta e il divenire consapevole che il mondo della salute e della malattia non è un compartimento stagno nell’intricatissimo sistema dell’ospedale, del reparto o del distretto, non sono questi i luoghi della cura! Il luogo della Cura è la persona! Come entità biologica, certo, ma anche con la storia del proprio vissuto, delle proprie percezioni di sintomo, malattia, dolore, guarigione e Cura. Il mio lungo peregrinare è iniziato là: alla prima lezione di antropologia al primo anno di laurea triennale; in quell’istante la determinazione ad interiorizzare certe nozioni e la ferma volontà a metterle in pratica, l’obiettivo la creazione di valore. La creazione di valore è un qualcosa che si discosta dalla ricerca della verità assoluta. Per definizione la verità assoluta non esiste, esiste la creazione di valore. Fare emergere il valore in ogni gesto, in ogni pensiero ed azione. Considero il “valore” più importante perché misura l’impatto soggettivo che un dato evento ha sulla persona.

La creazione di valore è qualcosa di molto faticoso; significa scegliere strade poco battute, agire e dare un senso diverso ad ogni azione intrapresa. Intendiamoci non c’è nessun eroismo in questo, ma la forza del coraggio si. Un coraggio che può essere accolto con freddezza e distacco persino con ostilità.

“Nella confusione della sofferenza non dimenticare che la gioia è la causa e non l’effetto della nostra vittoria”

D. Ikeda

La vittoria è condividere la risata di un paziente in camera di risveglio dodici ore dopo l’intervento chirurgico. Vittoria è mantenere relazioni armoniose con l’équipe. La vittoria è riuscire a chiedere ad un paziente “Come si Sente?”

La potenza di quell’attimo diventa determinante. Qual è il senso che possiamo dare alle nostre Cure? Il tempo che condividiamo con le persone che curiamo è un frammento infinitesimo nell’universo dell’esistenza di ciascuno, curato e curante. Da qui la potenza dell’attimo, della necessità di stabilire e coltivare, seppur brevemente, un legame cuore a cuore che nessun tecnicismo può sublimare.

Queste impressioni fanno parte del mio sentire, della modalità di vivere la mia Arte; certo ad oggi, lavorando in una branca ad alta specialità sono necessarie conoscenze tecniche precise e l’attenzione a procedure e protocolli, ma non mi distacco mai dalle modalità e i pensieri che riporterò di seguito perché nutrimento e linfa per la mia ingenua umanità.

Lunedì pomeriggio torrido, mi incammino lentamente verso l’ospedale. Ho pensieri confusi, molte volte non si riesce a mettere a fuoco un bel niente; a forza di farsi domande il cervello va in corto. L’espressione del mio viso dice: “ dannazione anche oggi l’ennesimo pomeriggio di routine, scandito da attività, gesti sempre gli stessi, sempre le stesse parole”. Cedo perché non ho altra scelta. Entro in reparto, saluto i colleghi , e meccanicamente inizia la sequenza dei gesti: roba ordinaria in un reparto dove viene svolta un’attività straordinaria. Stancamente abbandonati sulle sedie e rassegnati all’approccio alla giornata, squilla il telefono, giunge l’allerta della sala parto. D’un tratto le manovre si velocizzano, la routine viene relegata ai posti liberi sulle gradinate, per vedere questa partita fra la vita e la morte per gli operatori non restano che poltronissime. Faccio una corsa dal medico di guardia, avverto che bisogna tenersi pronti per un “nato a termine asfittico” che viene ventilato a mano post intubazione endotracheale d’urgenza eseguita in sala parto. La dottoressa impreca e mormora qualcosa, io le dico che le colleghe hanno già predisposto tutto. I volti sono rigidi, momenti concitati, si preparano gli strumenti. Gli infermieri di turno in sala parto entrano velocemente in reparto con la culla muta. La creatura è nata da genitori di colore ma dall’esile corpicino emerge solo una colorazione grigio livida, non un gemito non un movimento. Il silenzio è surreale; trapelano indiscrezioni sul parto, le responsabilità, le accuse. I colleghi che hanno accompagnato il bambino nel nostro reparto sono ammutoliti e malgrado l’urgenza del momento hanno lo sguardo assente di chi mentalmente si ripete la sequenza dello scempio cui ha assistito. Io mi sento stralunata, vengo tenuta lontano dalla zona di manovra, troppo inesperta, sarei d’impaccio, e poi ci sono altri pargoli di cui occuparsi. La tensione cresce le operazioni si fanno sempre più convulse. Deve essere trasferito ad un centro di terzo livello qui non siamo tecnicamente in grado di prenderci cura della sua breve e già tormentata vita. Entra il padre che varca la soglia del reparto ed ho come l’impressione che sulla porta vi sia scritto quello che Dante trova scritto sulla porta dell’inferno “lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”; per fortuna non per tutti è così ma per quel piccolo universo quella era una discesa negli inferi. La dottoressa di guardia ricerca in sé le forze per comunicare a questo genitore preoccupato l’essenza di una realtà durissima; mette in fila una sequenza di procedure, di nomi di farmaci e di condizioni cliniche che richiedono trasferimento e cure super-intensive ed ulteriori accertamenti. Il padre cerca di prendere aria e di raffigurarsi questo quadro tremendo; si scopre che è un medico chirurgo, l’aria è ancora più rarefatta. Nel frattempo ci viene comunicato che la madre è in rianimazione per una emorragia derivata dall’estremo sforzo in sala parto; non paghi veniamo a sapere che dopo due aborti spontanei questa era la prima gravidanza che la coppia riusciva a portare a termine. Nessuno in sala parto si era chiesto se fosse stato il caso di chiedere una qualche forma di consenso ad alcune delle procedure cruente alle quali sono stati sottoposti madre e figlio. Con le mani infilate nelle incubatrici per occuparmi dei nostri piccoli ospiti non potevo fare a meno di osservare lo sbigottimento del padre che guardava quel corpo solcato da tubi e quella pelle violata da fori. Borse del ghiaccio per portare ipotermia per avere neuro protezione delle funzioni cerebrali residue. Ho le lacrime agli occhi. Mi sono figurata la sala parto… certo forte è la mia immaginazione ed esagerato il mio coinvolgimento emotivo, ma continuo a non capire; ad evitare di razionalizzare anche perché non c’è una razionalizzazione tale da poter lavar via l’indignazione e l’inquietudine. Giunge la squadra per il trasferimento: con il fiato sospeso procediamo alla preparazione, al padre viene negata la possibilità di accompagnare il piccolo perché le procedure, i protocolli e le normative lo vietano; gli vengono distrattamente proposte alternative, poi un giovane medico si propone di accompagnarlo di persona al centro pediatrico. Si fa fatica a respirare. Al frastuono e alla fretta si sostituiscono il silenzio e la speranza.

Considero valore ogni forma di vita,

la neve, la fragola, la mosca.

Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.

Considero valore il vino finché dura il pasto,

un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si e’ risparmiato,

due vecchi che si amano.

Considero valore quello che domani non varrà più niente,

e quello che oggi vale ancora poco.

Considero valore tutte le ferite.

Considero valore risparmiare acqua,

riparare un paio di scarpe,

tacere in tempo,

accorrere a un grido,

chiedere permesso prima di sedersi,

provare gratitudine senza ricordarsi di che.

Considero valore sapere in una stanza dov’e’ il nord,

qual’e’ il nome del vento che sta asciugando il bucato.

Considero valore il viaggio del vagabondo,

la clausura della monaca,

la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.

Considero valore l’uso del verbo amare

e l’ipotesi che esista un creatore.

Molti di questi valori non ho conosciuto.

Erri de Luca

(Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, 2002)

Alessandra Trinci

Fonte dell’articolo

 

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