L’importanza delle parole
Il Direttore Responsabile e la Direttrice Editoriale, in un editoriale di “Laborcare Journal”, ci ricordano l’importanza dell’ascolto
di Gianluca Favero e Mariella Orsi
Sottovoce è un modo bellissimo di parlarsi, bisogna stare più vicini per ascoltare ed essere buoni complici, per sentire oltre le parole…
Abbiamo deciso di dedicare questo numero 42 di Laborcare Journal all’importanza delle Parole perché riteniamo che, oggi più che mai, nella realtà sanitaria si rischia una privazione di senso (e, in certi casi, anche banalizzazione) delle parole non solo quando i professionisti sanitari si rivolgono alle persone assistite ma, anche ai caregiver.
Come scrive Eugenio Borgna: “Le parole con cui la malattia è illustrata al fine di giungere al consenso informato, le parole con cui si risponde alle domande
sulla natura della malattia e sulla sua evoluzione, le parole con cui si dicono queste cose ai familiari, le parole che invece non si devono dire quando chi sta male chiede di non essere informato della malattia: le parole così facili e così difficili, così necessarie e così pericolose”.
Abbiamo, quindi, affidato agli autori degli articoli il compito di dare il giusto peso alle parole sia quelle pronunciate da Curanti che dai Curati. Sono articoli che entrano nel merito di un argomento così delicato quale quello del suicidio medicalmente assistito, altri che pongono al centro della relazione con il caregiver la relazione, ancor più quando il tempo si fa breve.
Due parole importanti
La parola “Amore” la ritroviamo nei contributi di Bruno Mazzocchi e di Alessandra Scoppetta come sentimento imprescindibile dello stare nella cura fino alla fine.
Altra parola, quasi mai utilizzata nei confronti del vissuto di malattia, è “ferita” per sottolineare la condizione di fragilità che la persona malata, ancor più se curante, è costretta a convivere.
Parole forti e, al contempo, delicate che fanno la differenza nella relazione che si insatura nel percorso di cura così come espresso al punto 8, Articolo 1, della Legge 219 – 2017 che recita: “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura’’.
Che i curati sentano il bisogno di comunicare lo dimostrano le numerose chat che troviamo postate sui canali social dove emerge il bisogno di condividere il proprio vissuto di malattia inter pares condividendo paure, fragilità, rabbia e speranze che, forse, non vengono condivise con i curanti.
Può sembrare un paradosso pensare di reagire alla solitudine, condizione in cui il malato, talvolta, viene relegato continuando a rimanere da soli davanti alla tastiera del pc o allo schermo dello smartphone; invece sono proprio le parole che vengono utilizzate e condivise che riducono il senso di solitudine.
La cosiddetta emergenza COVID, che ha imposto, alle persone, mesi di isolamento, ha aperto ancora di più questo tipo di comunicazione rispetto ai momenti di confronto che avvenivano, in presenza, all’interno delle varie Associazioni di ammalati.
Purtroppo il web e, talvolta anche i media, veicolano concetti utilizzando parole che generano false aspettative o giudizi lapidari che non fanno altro che favorire un disorientamento non costruttivo.
Inoltre, abbiamo chiesto ad un autorevole medico palliativista, Luciano Orsi, un contributo utile a chiarire le differenze e i rapporti tra Cure Palliative, Limitazione Terapeutica e Morte Medicalmente Assistita (MMA): tema questo che ancora stenta ad essere compreso correttamente.
C’è un saggio della psicologa-psicoterapeuta Sonia Ambroset (“E tu lo faresti?’’) che permette di riflettere sulla complessità e profondità connesse a queste scelte nel Fine Vita e a cui rimandiamo, chi fosse interessato ad approfondire, le motivazioni che ne sono alla base.
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