I come Impegno

Che lingua “parlano” i missionari? Il loro è un alfabeto di misericordia, con lettere che ridanno vita alle parole e generano opere

Ciascuno di noi, nella sua vita, ha ricevuto dei doni speciali, che non sono solo per sé, ma da condividere con gli altri. Quali? Forse bisognerebbe fermarsi un poco, chiudere gli occhi e riflettere. Poi prendere una penna e un foglio e cominciare a farne una lista.

Se ci abbiamo pensato intensamente, vedremo che ne troveremo abbastanza.

Un piccolo elenco:

  • saper far sorridere le persone tristi
  • cantare, suonare,
  • inventare cose utili per tutti
  • cucinare,
  • fare piccoli lavoretti che richiedono fantasia…
  • e chi più ne ha più ne metta.

Ma ce ne sono anche altri che si potrebbero riassumere in uno solo: condividere il proprio tempo.

Io, che faccio parte di questa terra, del genere umano, non sono un semplice spettatore, un tifoso, ma uno che entra in campo
e che gioca la sua partita fino alla fine della propria vita.

Per questo, ci veniva spontaneo chiedere ai nostri fratelli e sorelle in Africa di vedere come mettere almeno un’ora della propria settimana a disposizione
degli altri. E non è che non avessero niente da fare!

Tra il lavoro, iniziato al mattino presto (verso le 5), gli impegni a scuola, a casa…non mancavano mai. Però, piano piano, hanno capito che non esistiamo da soli, ma viviamo insieme con altri.

E allora? La risposta veniva nell’incontro settimanale che facevano al ritorno dal lavoro. Dopo aver pregato e ascoltato la Parola di Dio, ci si chiedeva come metterla in pratica. E ognuno raccontava quello che aveva visto intorno a sé.

Chi parlava di una malato solo, di una persona anziana, di qualcuno che non ce la faceva più ad andare a coltivare i campi, chi aveva bisogno di soldi per curarsi, di qualcuno che era stato messo in prigione ingiustamente e così pure delle esigenze della parrocchia, soprattutto in occasione delle feste.

Allora ciascuno diceva quello che era disposto a fare, ci si divideva il lavoro e al prossimo incontro ognuno avrebbe detto come era riuscito a vivere il suo amore concretamente.

Sembra facile…allora perché noi, qui in Italia facciamo fatica a farlo, deleghiamo sempre agli altri, mentre lo possiamo fare anche noi?

Forse non ci sentiamo parte della comunità parrocchiale, di quella civile?

Certo, è più facile criticare. Perché non ci mettiamo la faccia? C’è più gioia nel donare, che nel ricevere, ha detto Qualcuno.

Allora proviamoci e alla fine, sicuramente, saremo contenti. Quando usciamo di casa al mattino, riusciamo a dire un “buon giorno, come sta, ha bisogno di qualcosa?” a chi abita vicino a noi?

Certo non fa parte della nostra parentela stretta, ma di quella allargata, cioè siamo tutti persone di questo mondo, anche se di colore, lingua, nazionalità diversa.

Ho mai provato ad andare a rendere visita a qualche persona, sia personalmente, sia con i figli o nipoti, da chi abita vicino a noi e condividere con questa
persona un po’ del mio tempo?

Tutto ciò mi aiuta a stare meglio, riempie la mia giornata ed è una educazione concreta e semplice per chi sta cominciando il suo cammino nella vita.

Mi ricordo sempre, in Africa, la visita a una persona anziana. Mi ha fatto entrare nella sua casa, mi ha fatto sedere su una sedia, mi ha offerto delle arachidi bollite (buonissime!) e ha fatto comperare una bibita dal nipotino per me. Poi abbiamo cominciato a chiacchierare insieme.

Dopo un po’ di tempo (forse 30 minuti), le ho detto che dovevo andare a trovare delle altre persone. Allora lei si è alzata in piedi, ha cominciato a stringere la mia mano e a riempirmi di GRAZIE.

Io non sapevo più cosa dire. Mi ero accorto che dovevo essere io quello che diceva grazie, perché lei mi aveva accolto nella sua umile casa.

Ma lei ha detto GRAZIE, perché io mi sono accorto di lei. E quella notte mi sono addormentato felice!

Fonte

  • P. Oliviero Ferro

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SEC 2024-2025
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