Dove la gioia incontra la povertà

Un’ intensa esperienza dei giovani in Albania: Testimonianze dal Cuore delle Missionarie della Carità di Scutari

di Cecilia Marazzi e Nicoletta Erle

Rientrata a casa impaurita e profondamente toccata, quando sua mamma le chiese, se lei fosse in grado di vivere come una suora di Madre Teresa, lei rispose di getto: «se le Sorelle ce la fanno, posso farcela anch’io».

Questa era Clarissa, una giovane ragazza originaria del Kenya, che non riusciva a togliersi dalla testa questa domanda: «Ma le Sorelle dove trovano la forza e la gioia con cui fanno questo lavoro?»

La domanda le nacque durante il “Come and see”, l’esperienza a breve termine proposta dall’Ordine delle Missionarie della Carità per giovani ragazze attratte dal loro stile di vita.

Quella gioia che aveva visto nelle suore lei non l’aveva mai sperimentata: era una Gioia più profonda che non aveva trovato prima di fare quell’incontro. Quindi tornò, decisa a cominciare il percorso con loro, per cercare questa gioia, attratta anche dai momenti di preghiera che le Sorelle vivono quotidianamente: la Messa e l’Adorazione.

Seduti in cerchio ad ascoltare la testimonianza di suor Clarissa, siamo un gruppo formato da ventitré giovani di età diverse, provenienti da Como, Vicenza, Padova, Croazia e Albania. Era già più di una settimana che prestavamo servizio presso la loro casa, quando lei e suor Immacolate Rose hanno accettato di raccontarci la loro storia.

«Madre Teresa non parlava mai del suo lavoro, diceva semplicemente “come and see” (“vieni e vedi”). «Ma adesso», ci dice suor Clarissa, «voi avete preso parte a quello che facciamo, quindi qualcosa avete visto».

Abbiamo visto un cancello verde, seminascosto lungo una delle vie principali di Scutari, che si apre su un cortile profondo, con panni stesi, qualche giostra metallica, qualche pianta fiorita sui lati del vialetto.

Oltre quel cancello, abbiamo incontrato otto suore (due erano fuori città per un ritiro spirituale), una decina di operatrici sanitarie e cinquantasette “children” con diversi tipi di disabilità.

Queste donne si trovavano lì, accolte dalle suore, perché altrove, non avevano nessuno che si prendesse cura di loro.

Abbiamo conosciuto quelle che vivono in un edificio staccato da quello principale, le più indipendenti, che aiutano le suore nella struttura o in alcuni casi lavorano anche fuori.

Ci siamo presentati a quelle che vivono al piano terra dell’edificio principale che hanno bisogno di maggiore assistenza, pur essendo autonome nei movimenti o, se non lo sono, sono consapevoli e partecipi di quanto succede attorno a loro.

Nel primo piano della struttura abbiamo conosciuto le “children” nelle condizioni più delicate, che necessitano di assistenza continua per tutto, dall’essere imboccate, al fare il bagno, e qui la maggioranza non era neanche capace di camminare.

Per due settimane, abbiamo trascorso con loro le mattinate a contatto con una realtà che per la maggioranza di noi era completamente estranea al nostro vivere quotidiano.

Ci siamo occupati di tutto, dalla cucina, al lavare i pavimenti e ovviamente, all’intrattenimento delle “children” che hanno fatto sperimentare un po’ anche a noi, quella gioia di cui suor Clarissa ci aveva parlato.

Le attività con quelle del piano terra si svolgevano quasi esclusivamente nel cortile, all’ombra di un telo di plastica verde. L’incarico dato dalle suore, qui come al piano superiore, era di “fare festa”. Quindi si ballava, si cantava, si giocava a palla, finché i corpi reggevano l’afa e le temperature.

Non c’è stato bisogno di inventare particolari attività, per quanto si cercasse di proporre idee nuove: la “festa” era semplicemente divertirsi insieme.

Il primo piano, dove vivono invece le ragazze meno autonome o che hanno tendenze autolesioniste, offre un clima diverso: gli sguardi spesso puntati altrove, difficili da intercettare, le braccia e le mani nascoste nella stoffa, i fianchi assicurati da cinture o nastri alle carrozzine o ai seggioloni.

Anche qui però basta un po’ di musica per portare la festa.

C’è chi accompagna una ragazza alla volta a fare due passi, magari a sgranchirsi le gambe bagnando i piedi nella “piscinetta” del cortile interno, chi si dedica a massaggiare le mani, così spesso contratte, chi fa il giro portando a ciascuna da bere.

Verso le undici cominciano ad arrivare i piatti dalla cucina.

Il personale e le suore danno indicazioni rapide e precise: per ogni ragazza ci sono consuetudini o attenzioni diverse. L’impegno di forze richieste è notevole: molte hanno bisogno di essere imboccate e seguite singolarmente per tutta la durata del pasto.

Qualche minuto più tardi anche al piano terra arriva l’ora del pranzo. Qui, le ragazze in grado di farlo aiutano le altre: come le sorelle maggiori fanno con le minori, distribuiscono i piatti, aiutano ad indossare i bavaglini, si assicurano che anche le meno obbedienti mangino tutto…

Durante la nostra permanenza, sono stati organizzati un pic-nic per le ragazze del primo piano e una mattinata al mare con il piano terra: per alcune “children” è stata la prima gita fuori porta della loro vita.

È evidente che qualche mano in più è un sollievo e dà modo alle suore di poter dedicare più tempo alle singole ragazze con esigenze particolari, come alle altre di fare attività che altrimenti non ci sarebbe la forza di organizzare.

È altrettanto evidente però che siamo ospiti e che la nostra presenza, accolta come una festa da molte ragazze, non è necessaria per lo svolgimento della normale routine quotidiana.

Il loro è un nucleo familiare. Certo, molto ampio, che accoglie con gioia chi vuole venire a vederlo, ma all’interno del quale le componenti si prendono cura le une delle altre con altrettanta gioia.

Tutto è accolto come un dono: l’aiuto esterno, quanto ogni singola persona all’interno.

«Sono i nostri angeli» dice suor Talita, riferendosi alle ragazze. «E voi siete i loro», risponde Padre Pietro.

Parte del servizio, come quello delle suore e delle operatrici, è invece di lavoro pratico: durante tutta la prima parte della mattina si cucinano grandi quantità di cibo, diversificato a seconda della possibilità delle ragazze di masticare e deglutire, e si cura verdura e frutta donata da produttori o negozi della zona.

La Provvidenza è stupefacente: «Arriva sempre ciò di cui abbiamo bisogno», sorride suor Talita. Nel frattempo al primo piano si lavano a mano lenzuola, vestiti, bavaglini e biancheria, e poi si stendono in cortile, lungo il vialetto d’ingresso.

Ma perché non avere una lavatrice? Suor Candela ci ripete le parole di Madre Teresa, spiegandoci che loro dedicano la propria vita a servire i poveri, “scegliendo liberamente di essere povere come loro, in modo da poter comprendere la loro povertà”.

La scelta di povertà, senza compromessi, ci interroga: accettare una lavatrice non sarebbe forse un modo per avere più tempo da dedicare alle ragazze? Per offrire loro una qualità di vita migliore?

Le suore accolgono solo le persone che non hanno nessuno: bambine abbandonate per strada o lasciate loro da famiglie che non hanno la possibilità economica per accudire una persona che ha bisogno di assistenza ininterrotta. «Non sono situazioni facili per le famiglie: non giudicate nemmeno chi abbandona», ci ammonisce suor Candela.

Il loro servizio è essenziale e reso con un’attenzione e un’amorevolezza che lo fa sembrare facile. Sembra una piccola goccia, ma in realtà si fanno carico di quei diritti umani fondamentali, che a queste persone non sono garantiti dalla società e alla quale nessuno chiede di rispondere.

Le famiglie che abbandonano, sono a loro volta lasciate sole.

Le persone «da cui Dio ha mandato Madre Teresa» (e dopo di lei le Missionarie della Carità), come sottolinea suor Immacolate Rose, «hanno bisogno di Lui perché, emarginate dagli uomini, pensano che nemmeno Dio si interessi a loro: tramite lei, Dio dice a ognuno di loro “ti amo, mi stai a cuore, sei preziosa ai miei occhi”».

La gioia che rende instancabili e luminosi i sorrisi delle Sisters, ci ha spiegato suor Clarissa, «viene dalla nostra unione con Gesù, che è sia nel povero, sia nell’Eucaristia».

“Che cosa siete andati a vedere nel deserto?”

Le suore assumono la povertà dei più poveri, senza compromessi. Ma la lavatrice sarebbe un compromesso? Forse sì, perché non tutti hanno la possibilità di scegliere se averla. Anche quelli che chiamiamo “diritti fondamentali”, finché non sono effettivamente goduti da ogni persona, non sono altro che privilegi di alcuni. Ma se si può dare qualcosa a qualcuno a cui manca, perché non farlo?

«Essere sposa di Cristo non è essere dei lavoratori sociali e risolvere problemi». Per le suore di Madre Teresa tutto si riassume nel “Vangelo delle cinque dita”, «lo avete fatto a me» (Mt. 25), perché «la missione non è servire i poveri, è amare Gesù, amando i più poveri tra i poveri».

(1 settembre 2024)

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