Domenica XXIV Anno B – Farsi servi come il Servo
Letture: Is 50,5-9; Gc 2,14-18; Mc 8,27-35
La prima Lettura (Is 50,5-9) ci presenta l’“uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is 53,3), che “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Is 53,4), e per le cui “piaghe siamo stati guariti” (Is 53,5). Personaggio misterioso, che già indusse l’eunuco etiope, funzionario di Candace, regina di Etiopia, a domandare al diacono Filippo, inviatogli dallo Spirito Santo: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di sé stesso o di qualcun altro?” (At 8,34). Già in Israele molti avevano cercato di identificare questo personaggio con una figura storica precisa. Ma infine la tradizione ebraica lesse nel Servo di IHWH la profezia del destino di Israele stesso, che con la sua tragica storia di esilio, di dispersione, di persecuzione, diventa fonte di salvezza per tutte le genti (Lc 1,54).
L’interpretazione che ne diede la Chiesa fu quella cristologica: “Filippo, partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù” (At 8,35). Matteo esplicitamente afferma che in Gesù “si adempie ciò che era stato detto dal profeta Isaia” a proposito del Servo (Mt 8,17 -> Is 53,4; Mt 12,17-21 -> Is 42,1-4). In Giovanni, il Battista indica Gesù come “l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29), richiamando proprio Is 53,7 e giocando sul termine aramaico “talija”, che può significare tanto “servo” quanto “agnello”. Questa spiegazione non rinnega le precedenti, ma le porta a compimento. Sia i vari giusti che soffrirono nell’Antico Testamento che l’intero popolo di Israele sono figura e profezia del Messia, il Giusto per eccellenza, dalle cui sofferenze tutti siamo stati salvati.
Nel Vangelo odierno (Mc 8,27-35) siamo al cuore dell’annuncio di Marco: all’inizio (1,1), alla fine (15,39) del Vangelo, e qui, al centro, è proclamata la divinità di Gesù Cristo. Nella città che porta il nome di Cesare, che si fa chiamare Dio e Signore, Pietro afferma che Gesù è il “Kristòs” (traduzione greca dell’ebraico “Mashìa”), l’Unto escatologico, in cui Dio porta a compimento l’attesa messianica di Israele.
Ma Gesù si identifica nel Servo sofferente profetizzato da Isaia: essere Messia per lui significa soffrire “molte cose” (“pollà”), essere ripudiato, e poi risuscitare. Questa rivelazione è scandalosa per Pietro, che si pone a fianco di Gesù per dargli consigli (Is 40,13-14): Gesù rimette Pietro nel suo ruolo di discepolo, che deve camminare dietro al Maestro: “Ypaghe opìso mou!”, “Va’ dietro a me!” (Mc 8,33); e lo chiama satana, avversario, purché si oppone alla logica della salvezza.
Quindi Gesù avverte tutti coloro che vogliono mettersi alla sua sequela: occorre che “disconoscano” (“aparvèomai”: Mc 8,34) se stessi, cioè che non conoscano altro che la volontà di Dio che è la chiamata al servizio, che accettino anch’essi la croce, che facciano della propria vita un dono totale.
La seconda Lettura (Gc 2,14-18) ricorda al cristiano che se la sua fede non diventa “opera”, “è morta in sé stessa”. Ma non basta “aiutare” genericamente il prossimo. Sull’esempio del Servo di IHWH che si è incarnato nelle nostre sofferenze prendendole su di sé, così il discepolo dovrà partecipare alle strettezze, alla povertà, ai dolori, ai tormenti degli uomini, condividendo totalmente la vita dei fratelli. Ai cristiani è richiesta la “compassione”, cioè di saper “patire con” chi soffre: “”Se un membro (del corpo mistico di Cristo) soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1 Cor 12,26); perciò “rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto” (Rm 12,15), “facendovi solidali con… gli esposti a insulti e tribolazioni” (Eb 10,33).
Siamo chiamati a partecipare alla vita del Servo facendoci, come lui, servi e partecipi delle sofferenze dei fratelli.