Domenica XX Anno B – L’eucarestia Ci Incorpora Nel Mistero Pasquale Di Cristo

Letture: Pro 9,1-6; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58

Tutti sono concordi che la prima parte del capitolo 6 di Giovanni può essere letta in chiave spiritualista, con qualche allusione all’Eucarestia: ma i vv. 51-58 sono da intendersi solo in senso sacramentale? Credo che il primo significato rivelativo sia sempre l’adesione a Cristo.

Se nella prima parte le parole-chiave erano “venire a me” e “credere” (6,35), ora sono “dare” e “mangiare-bere”: là si chiedeva fede in Dio che entra nella storia in Gesù (incarnazione), qui in Dio che si dona fino al sacrificio di sé (redenzione). Le parole “carne-sangue” non indicano semplicemente la persona di Gesù, ma che egli sta per essere consegnato alla morte. L’eresia gnostica e docetica riteneva impossibile che un Dio potesse patire e morire: Gesù di Nazareth avrebbe solo ospitato la divinità dal Battesimo all’inizio della Passione. Giovanni insiste sulla realtà dell’incarnazione, sulla completa identificazione del Cristo divino con l’uomo Gesù di Nazareth, sul fatto che Gesù è il Cristo venuto ” non in acqua soltanto, ma in acqua e sangue” (1 Gv 5,6): la teofania battesimale è inscindibile dalla morte in croce, che per Giovanni è il luogo massimo della manifestazione di Dio. Per questo ribadisce la necessità di unirsi alla “sarx” di Cristo, termine che significa “carne” in senso plastico, anatomico, muscolare: e scandalizza usando il verbo quanto mai concreto “troghein” (da cui la parola trogolo…) che non significa tanto “mangiare” quanto “masticare”, “divorare”, “brucare”. Non bisogna edulcorare questo realismo: è il realismo dell’Incarnazione.

La celebrazione dell’Eucarestia, con la sua concretezza sacramentale, è segno della vera umanità di Cristo: partecipando ad essa, noi “annunciamo la sua morte, proclamiamo la sua resurrezione, nell’attesa della sua venuta”. “La comprensione realistica del pasto sacramentale (mangiare la carne, bere il sangue) non ha niente di magico. Attraverso il pasto Gesù stesso si unisce a quelli che lo ricevono (v.56); essi vivono attraverso di lui ed egli li risusciterà…(v. 54), così come la sapienza si unisce, nella Prima Lettura, a quelli che partecipano al suo banchetto (Prov 9,1-6). Il nutrimento sacramentale è solo un mezzo per raggiungere una comunione personale con lui” (R. Schnackenburg).

Il testo torna più volte sul concetto di “ultimo giorno” (6,39.40.44.54). “Nell’ultimo giorno, il grande giorno della Festa”, Gesù invita ad abbeverarsi all’acqua viva che sgorgherà dal suo seno, cioè dallo Spirito che egli spanderà alla sua glorificazione (7,37-39): ciò si realizzerà nella sua morte, quando egli sarà glorificato, effonderà il suo Spirito, e dal suo fianco sgorgherà acqua (19,30-34). Giovanni è l’annunciatore di un’escatologia che già si compie nel mistero di Cristo: “Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede in lui è già stato condannato” (3,18); “chi crede ha la vita eterna” (3,35; 6,47; cfr 5,54); nella sua morte una volta per tutte è stata vinto il satana, la sofferenza e la morte.

Mangiando la sua carne ed il suo sangue, partecipando cioè al mistero della sua morte, già ora abbiamo la vita eterna. In realtà questo “già” è tale nella fede, perché siamo ancora prigionieri della nostra finitudine creaturale: l’Eucarestia ci immerge nell’ottimismo di una vittoria già realizzata, e al contempo ci è pegno della nostra resurrezione futura (v. 54), aprendoci a un “non ancora” che si realizzerà alla nostra morte, quando contempleremo faccia a faccia la gloria di Dio stesso (1 Cor 13,12). L’Eucarestia, inserendoci nel passato della morte del Signore, ci incardina nel presente di una vita in lui che inabita in noi (v.56), proiettandoci nella comunione totale con Dio del banchetto messianico futuro.

Non ci resta davvero, come ci invita la seconda Lettura (Ef 5,15-20) che elevare “salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore…, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo”.

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