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Cristina Voglino: Ho scritto un libro…

Evoluzione e Riscoperta: Riflessioni sulla Malattia e la Misericordia in un Mondo in Cambiamento

Premessa

Ho come la sensazione che, attorno a noi, ci sia un’evoluzione. Mi sembra che siamo passati da un periodo in cui si pensava a inseguire il benessere personale, economico, sociale e ad uno diametralmente opposto in cui protagonista è la malattia, il fantasma che risiede molto vicino alla nostra porta di casa. Lo dico in virtù di una sensazione concreta: dichiarazioni che spesso sentivo in passato come «Quello sì che è fortunato: ha tutto, compresa la salute», oppure «Si sa che la sfortuna colpisce sempre le solite persone» hanno oggi lasciato il posto a frasi come «Ognuno ha le sue», «Non c’è famiglia che non debba fare i conti con il cancro».

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Mi chiedo cosa sia cambiato. Forse nella crisi che il nostro paese sta vivendo c’è un risvolto positivo: ognuno è costretto a guardarsi un po’ più attorno, a scoprire che in tanti si fa fatica, che «ce n’è per tutti».

Ma allora mi domando: non è sempre stato così? E mi chiedo ancora: Bisogna aspettare di trovarsi in “braghe di tela” per potersi accorgere di come stanno gli altri?

Da sempre sappiamo che ogni giorno c’è un bambino che non tornerà a casa da scuola, un padre o una madre che non torneranno dal lavoro e se ci soffermassimo a pensare che queste cose possono succedere anche a noi, non usciremmo più di casa.

Essere a contatto con la vita degli altri non vuol dire pensare che sono cose che accadranno anche a noi: vuol semplicemente dire che siamo uguagli a tutti gli altri, siamo esseri umani e in quanto tali “finiti”.

Oggi mi sembra di aver più chiaro “che cosa è importante e che cosa non lo è”.

Brano 1 (parole 4.296)

Per un genitore è “normale” pensare che il proprio figlio diventerà un giorno un uomo o una donna, padrone della sua esistenza. È «ovvio» collegare l’idea di malattia alla vecchiaia. La vita, di solito, funziona così. Ma se ti trovi in quella percentuale di genitori che hanno un figlio malato sai quant’è difficile fare i conti con l’idea di futuro.

La mia storia inizia così: per mia figlia mai un sintomo; poi un elettroencefalogramma, e una risonanza magnetica, «Perché durante l’estate, per due volte “due misere volte”, mia figlia si era incantata, ma in modo strano. Per non più di cinque secondi tremava, storceva gli occhi e poi tutto passava».
E così la diagnosi sconvolge la vita di una famiglia, e di una bambina.

«Quando apprendi la notizia, resti sconcertato: quello iniziale è un momento drammatico, ti senti solo di fronte a malattie dalle sigle sconosciute, non sai minimamente di cosa sta parlando il medico».

La malattia, che cinque anni fa i medici del Regina Margherita di Torino diagnosticarono a mia figlia all’età di sette anni risulta difficile da pronunciare: cancro al cervello. «Ci siamo sentiti “schiantati”, devastati dalla diagnosi. Come spesso accade nei casi di tumore cerebrale, noi genitori non avevamo avuto il tempo di vedere i sintomi».

«Non rimanere soli nel dolore, dare qualità ai pochi momenti in cui si sta insieme, imparare ad ascoltare sé stessi e i propri bambini». I forti legami creati da subito dentro e fuori la struttura ospedaliera mi hanno aiutato me e mio marito a non precipitare nell’abisso della disperazione. Dagli operatori sanitari al neurochirurgo, dalla maestra dell’ospedale alla neuropsichiatra, alla fisioterapista della ASL, un «esercito» di persone ha vissuto l’avventura della malattia. Conoscendomi in quanto attrice e pedagogista teatrale, impegnata nella formazione di operatori ed educatori, “alla fine” mi ha chiesto di scrivere quella storia che non avrei mai voluto raccontare.

Il libro Aiutami a non avere paura (ed. Claudiana)

aiutami a non avere paura
Ed. Claudiana

E così ho scritto un libro: è una storia tra tante. Una storia vera come ce ne sono altre. Io, questa storia non avrei mai voluto scriverla, ma le parole hanno preso vita da sole, nel dialogo con altri genitori, nell’umanità degli incontri con infermieri, medici, chirurghi, maestre ospedaliere, psicologi, neuropsichiatri, terapisti della riabilitazione…».

Una storia che è intreccio di personaggi, di mamme e bambini. Ma anche di medici, infermieri, maestre d’asilo, genitori, volontari, compagni di classe.
Ho scritto per non dimenticare, per dare un senso a ciò che un senso non ha. Perché la malattia di un bambino non ha senso.

Aiutami a non avere paura è un libro corale che raccoglie l’esperienza di uomini e donne che per lavoro o storia personale – molti costretti dalla malattia di un figlio – hanno dovuto fare il «grande salto»: assumere in carico il dolore, elaborarlo e seguire quello che l’autrice chiama «il durissimo ma ricco cammino verso la pedagogia del coraggio».

Il titolo Aiutami a non avere paura nasce dal grido di aiuto lanciato da un bambino affetto da una gravissima malattia. Questa frase, nel racconto, assume un valore trasversale: vale per il bambino, vale per il genitore, ma vale anche per il medico.

«Credo non sia giusto negare la paura. Fortunatamente con il passare degli anni si impara a mettere in atto una serie di strategie per controllarla e talvolta aiuta a migliorare se stessi» afferma la neurochirurga che ha operato mia figlia (che oggi ha sedici anni, ha subito in vari interventi l’asportazione del tumore, rivelatosi benigno, e convive con i postumi della sua malattia e con il lutto del padre, morto di cancro dopo sei anni “da quel giorno”).

Dicono che le pagine del libro sono pagine che vanno lette con molta forza e molto coraggio, ma anche che la leggerezza con cui ho raccontato tutto è la leggerezza del modo di vivere dei bambini.

Ogni pagina scritta vorrei che insegnasse a guardare alla “flebo mezza piena”.

Sì, quello che la “gente comune” chiam il bicchiere mezzo pieno, io lo chiamo così. La flebo mezza piena è un nuovo modo di guardare al dolore. Perché questo fanno i bambini: ti insegnano a rielaborarlo perché ti insegnano (o “re-insegnano”) a chiamare le cose con il loro nome, non negano la malattia e nemmeno la morte.

Brano 2 (parole 3.293) – La «seconda vita» dei genitori

Nelle pagine del libro, illustrate dai disegni dei bambini del Regina Margherita di Torino, ho cercato anch’io di non nascondermi dietro alle parole. Ho raccontano «la seconda vita» dei genitori che si ritrovano accanto al figlio malato: l’ospedale che diventa la «prima» casa e alla fine rischia di essere un’oasi sicura contro la «normalità» esterna; il mondo di complicità che si crea con gli altri genitori; il «fare il tifo» gli uni per i bambini degli altri e la difficoltà a trovare le parole per chi non ce l’ha fatta; le diverse reazioni di amici e parenti di fronte alla malattia; ma soprattutto la trasformazione della realtà nel mondo magico dei bambini che riescono a creare spazi di gioco e di meraviglia anche tra drenaggi e flebo, tra risonanze magnetiche e riabilitazioni motorie.

«I bambini sono fantastici. Anche chi sapeva che quelli sarebbero stati i suoi ultimi giorni, continuava a preservare il suo mondo magico. Loro ti insegnano che tutto è possibile. E in quel tutto c’è anche la morte». «Nella malattia i piccoli non ti consentono di dire bugie. Da mia figlia ho imparato che, nel dolore, è fondamentale che ognuno mantenga il suo ruolo: l’adulto fa l’adulto e il bambino il bambino. Loro ti chiedono di dare delle risposte, e se non le hai devi ammetterlo».

Anche la relazione di coppia cambia. «Sarebbe più facile dividersi che stare insieme. Uno sta in ospedale, l’altro lavora; ti incontri solo per darti indicazioni su pasti, antibiotici, terapia. La coppia finisce per svanire, si diventa due genitori con figlio. Uomini e donne reagiscono in modo diverso. Ma se riesci a recuperare il valore della differenza, la coppia cresce. È banale dirlo, ma è così: si rivede la propria scala di valori, dando molta più importanza alla bellezza degli istanti, all’intimità fatta di piccole cose, agli sguardi».

Intorno al libro sono nate varie iniziative (www.aiutamianonaverepaura.it): tra queste l’associazione culturale Antescena che, tra le varie attività, ha sostenuto l’omonimo spettacolo teatrale tratto, è impegnata in «Tic, il teatro in corsia», tra i letti degli ospedali infantili nei reparti di lungodegenza.
Il libro è diventato anche uno spettacolo teatrale. La delicatezza dell’argomento e l’energia necessaria ad affrontarlo in palcoscenico ed è dedicato ai bambini malati di cancro e a tutti gli adulti che si prendono cura di loro.

Il teatro di permette di giungere subito al messaggio. Così poniamo l’accento sulla pedagogia del coraggio e sul concetto di resilienza: sono le prime cose che si colgono in scena. La parola “resilienza” deriva dalla fisica e dimostra come tutti i materiali hanno la capacità di sopportare una forza d’urto; riportando il concetto in psicologia, rispetto alla malattia e alla morte, l’importante è far capire che ognuno ha in sé le risorse per sostenere l’impatto: è una caratteristica antropologica di cui siamo tutti dotati.

Perché ci s’imbarca in un’avventura così? Quando vivi un’esperienza hai bisogno di parlarne: è servito a me e desidero tanto che alla gente arrivi la mia urgenza di comunicare qualcosa che mi ha cambiato e cresciuto. Facendomi scoprire la Pedagogia del coraggio titolo del libro che ho scritto, dopo la morte di mio marito, insieme a Giovanna Corni e Maria Varano.

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Cristina Voglino

Fonte dell’articolo

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