A come ACCOGLIENZA
Che lingua “parlano” i missionari? Il loro è un alfabeto di misericordia, con lettere che ridanno vita alle parole
La premessa
Nel gennaio del 1984, sono arrivato nella missione di Baraka sul lago Tanganika, in Congo.
Anche se già lo avevo fatto da ottobre a dicembre 1983, comincio a studiare in concreto la lingua swahili e piano piano preparo le omelie per la messa domenicale.
Qualcuno mi suggerisce di aggiungere anche un piccolo racconto per attirare l’attenzione della gente. E così ho cominciato a scrivere delle piccole storie che commentavano il Vangelo.
Quella di oggi riguarda Matteo 15,21-28 (la donna straniera).
Il racconto
Tanti anni fa, in un villaggio si fece una grande festa.
Danze, canti, accompagnati dal tamburo, portavano la gioia dappertutto.
I bambini ogni tanto facevano confusione. Gli anziani commentavano: “Come cambiano le cose. Una volta i vecchi erano rispettati. Oggi nessuno ci considera più. Che tempi!”.
Le donne erano ormai rientrate dal lavoro dei campi per preparare da mangiare e la birra di banane.
Verso sera, i giovani smisero di danzare, perché ormai la fame si faceva sentire.
All’improvviso, tutti vedono tre persone che si stanno avvicinando al centro del villaggio.
Nessuno li conosceva. Erano stranieri.
I bambini cominciarono a dirsi l’un l’altro: “Ma chi sono? Da dove vengono? Da quale tribù?”.
Un vecchio del villaggio si avvicinò e domandò loro: “Da dove venite? Cosa cercate?”.
Gli stranieri risposero: “Veniamo dalle montagne. Abbiamo fatto un lungo viaggio. Siamo stanchi e moriamo di fame. Per favore, dateci da mangiare”.
Tutti cominciarono a mormorare: “Non è giusto. Sono stranieri e di un’altra tribù. Non hanno diritto al nostro cibo”.
Ma il vecchio disse ancora: “Smettetela di fare confusione. Anche loro sono persone come noi. Perché dobbiamo rifiutare loro il cibo? Mamme, fate in fretta. La festa deve continuare e questi stranieri saranno gli invitati d’onore. Da ora saranno nostri amici”.
Finalmente tutti ascoltarono questo buon consiglio. La festa divenne più bella, perché avevano accolto nuovi amici.
L’Accoglienza, oggi?
E ricordando questa storia, mi viene spontaneo metterla vicino a quello che succede in questi giorni, non solo con i migranti, ma anche con altre persone che si incontrano per strada, che magari non ci piacciono, che non tifano per la nostra squadra o il nostro partito o sono della nostra religione.
Perché li vediamo spesso come nemici, come coloro che disturbano la nostra tranquillità, che possono farci del male?
Un giorno un professore di antropologia, in una conferenza, spiegò che la parola “barbaro” non significa uno che non è vestito bene, rozzo, ma uno che balbetta, che non riesce a parlare bene la lingua dell’altro.
Allora, mi viene da chiedermi, e questa domanda la rivolgo a ciascuno di voi che mi legge:
“È proprio difficile dire a qualcuno che è il benvenuto a casa mia, nel mio paese, nella mia vita?”.
Certo, per fare questo, bisogna cominciare a fare l’accoglienza in casa propria, in famiglia, nella scuola, nel divertimento; insomma, nella vita di ogni giorno.
“In Africa, mi hanno accolto”
I primi giorni che ho trascorso in Africa (ne passarono poi altri 13 anni e mezzo) sono stati quelli dell’accoglienza. Mi hanno accolto, mi hanno aiutato a sentirmi bene a casa loro ed io ho cominciato a sentirmi a casa mia. Non ci volevano grandi gesti. Bastava una stretta di mano, un sorriso, un condividere il cibo insieme, sedersi e chiacchierare insieme, passare il tempo senza fretta.
Insomma, sentirsi amici come da sempre e soprattutto, iniziare a togliere i pregiudizi su di loro.
È stato un bel cammino e ne sento ancora tanta nostalgia.
Sono stato accolto e ho imparato qualcosa di più su come accogliere pole pole (senza fretta).
Fonte e immagine
- Padre Oliviero Ferro